Specchio

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Robert stava leggendo quando, poco prima della mezzanotte, ricevette un messaggio sul telefonino. Con sorpresa vide che proveniva da un numero sconosciuto, l’aprì e lo scorse rapidamente fino in fondo. Era firmato Sylvia.

Sylvia, Sylvia…, rifletté. Ma certo, Sylvia, quella del corso di fotografia, la studentessa dell’Accademia… Lesse il messaggio.

Sylvia sapeva, lui probabilmente non ricordava – ne avevano parlato dopo una lezione, che Robert possedeva un libro su Man Ray, una monografia fuori stampa, impossibile da trovare…

Robert saltò alla parte finale del messaggio. In sostanza la ragazza chiedeva se potesse prendere il libro in prestito per qualche settimana. Robert sospirò. Chissà cosa si aspettava.

Rilesse l’ultima riga, Un saluto, Sylvia. Per fortuna non mi ha dato del lei, pensò. Mise via il telefono, riaprì il libro e cercò il punto in cui si era fermato. S’interruppe poco dopo e agguantò il cellulare. Meglio rispondere.

Si mostrò disponibile ad accontentarla, ma volle prima informarsi sulle ragioni di quella richiesta. Sylvia rispose dopo qualche minuto motivando che il testo le serviva per un workshop del corso di scenografia – scusa non avevo specificato: era in cerca di materiale per lo sviluppo di un’idea dadaista. Un’idea dadaista, scrisse proprio così.

Robert rilesse il messaggio un paio di volte soppesando le parole, poi gliene inviò alcuni spiegandole che il volume era ricchissimo di approfondimenti trasversali su fotografia, arte figurativa e letteratura. Gliene citò qualcuno ed elencò anche alcune letture correlate che le sarebbero state certamente utili. Scrisse proprio così.

Attese qualche minuto senza ricevere risposta. Aveva esagerato? Aveva certamente esagerato, aveva fatto la figura del sapientone.

Ma il cellulare vibrò di nuovo, e con sollievo Robert notò che Sylvia non aveva alcuna intenzione di far cadere la conversazione, anzi incalzava con le domande. Si alzò dal letto e recuperò la monografia da uno scaffale, le inviò qualche foto, poi andò a prendere un altro libro e ne trascrisse degli estratti.

R: E, dimmi, ti piace la poesia?

S: Sì, ogni tanto scrivo. Scrivo poesie, intendo. E tu, ti ho interrotto, cosa stavi leggendo?

Si scambiarono messaggi per ore, discutendo di cose che non avrebbero mai pensato di avere in comune, rivelandosi cose che di persona non sarebbero mai stati in grado di dirsi. Complice la notte, ponte sospeso fra le loro due camere da letto.

Col tempo Robert dimenticò l’emozione provata quella volta, quando non riusciva a staccare le dita dalla tastiera del telefono e i pensieri di Sylvia si intrecciavano ai suoi come i respiri di due amanti. A malincuore aveva abbandonato il letto un paio di volte per andare in bagno, sperando che lei non lo lasciasse, che non si addormentasse.

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Nei giorni seguenti parlarono di sesso. Lo fecero come se fosse la cosa più naturale del mondo, l’evoluzione prevedibile e necessaria della loro corrispondenza notturna. Si piacevano, erano attratti l’uno dall’altra e non c’era modo migliore di quello per dirselo.

Avviarono una specie di gioco erotico a distanza.

Iniziò Sylvia, fu lei a condurre Robert su quel terreno. Era certa che avrebbe gradito, che non aspettasse altro. Anche a lei piaceva, ma era l’idea di poter insegnare qualcosa a un uomo più grande di lei a solleticarla più di ogni altra cosa. Voleva mostrarsi all’altezza, voleva stupirlo.

A ben vedere, le cose stavano così dall’inizio. Dal primo istante Sylvia si era posta nei confronti di Robert e della cerchia dei compagni del corso di fotografia come una giovane donna disinibita, sicura di sé e consapevole dell’ascendente che la sua irrequieta bellezza suscitava negli uomini con cui entrava in contatto. Era sfuggente e provocante allo stesso tempo.

Per settimane lei e Robert erano stati due perfetti sconosciuti. Si incrociavano, si osservavano, si evitavano educatamente. Certo Sylvia si faceva notare. Le sue dita si muovevano rapide sugli obiettivi, così come la mente scartava e divorava in fretta le idee. Nonostante la sua giovane età, sembrava sapere già tutto della vita e non aver tempo da perdere. Il suo fare risoluto e spavaldo mascherava una sottile inquietudine.

Robert era un architetto di quarant’anni, single. Un po’ trascurato o incurante, a giudicare dal taglio irrisolto di capelli e da quello antiquato dei jeans che indossava. Di poche parole, ombroso, o forse solo timido, sempre con l’aria di aver perso qualcosa. Affatto degno di nota agli occhi di una studentessa d’Accademia di ventun’anni. Eppure sono proprio certi dettagli, certe debolezze, certe insicurezze, le cricche e le imperfezioni in un pezzo di marmo, su una tela, così come nella vita, a incuriosire e attrarre la sensibilità di alcune persone. Sylvia era una di quelle.

Mandò a Robert un proprio scritto, un breve racconto di due ragazzi che, studiatisi e annusatisi nei loro viaggi in treno fra casa e università, dopo qualche breve schermaglia, si ritrovano finalmente a casa di lei e fanno l’amore.

Robert, incredulo, lesse il brano più volte. Dapprima con un fremito, poi più freddamente. Non si trattava di un capolavoro per originalità e immaginazione, ma era molto convincente e particolarmente riuscito nelle descrizioni del finale, sensuali e per niente scontate, esplicite e affatto prove di poesia. Si vedeva tutto, niente veli o dissolvenze, ma non c’era volgarità, niente di urtante. Era un sesso bello, vissuto con intensità, senza censure né inibizioni, liberamente. Robert, infine, ripercorse il racconto con lo spirito per il quale era stato composto, lasciandosi solleticare dalla fantasia, eccitandosi e sussultando come la pelle della protagonista in preda ai palpiti dell’ultima pagina.

Il giorno seguente volle rispondere a tono. Rispolverò un vecchio quaderno e un suo breve componimento di quando si trastullava con l’idea di scrivere. La scena raffigurava, in toni un po’ aulici, due amanti impazienti che fanno sesso in un cinema.

… si strinsero in uno scomodo abbraccio che mascherasse i loro movimenti, sempre più esigenti e precisi. Soffocarono i gemiti mordendosi le labbra a vicenda, intuendo l’uno il piacere dell’altra dai pochi spasmi concessi ai loro muscoli contratti. I loro corpi s’adattavano, guidati da mani vogliose, celando al mondo il piacere arroccato di quella posa…

Un po’ desueto, pensò. Lo aggiustò qua e là, e lo trascrisse in un’email. Premendo il tasto invio, sorrise al pensiero della faccia che avrebbe fatto Sylvia leggendolo.

… Trattennero il fiato emergendo a tratti da quell’apnea incondizionata e continuarono così, rapiti, devoti, fino all’approdo...

Sylvia rispose entusiasta con un lungo commento appassionato, che fece esultare Robert con un grido di gioia. E rilanciò.

Questa volta descrisse una scena di autoerotismo nel salotto di casa. Usò volutamente la prima persona e il tempo presente, descrisse i dettagli della stanza in penombra, illuminata appena dallo schermo del televisore che guardava svogliatamente; il divano di pelle sul quale il suo corpo si abbandonava, scivolando lentamente, strusciandosi, contorcendosi, infine sciogliendosi. Si spogliò per lui, offrendoglisi completamente, come un corpo in rilievo su sfondo neutro e scuro, come una Bella Rafaela, o una Maya desnuda, la sua.

Quella rappresentazione fu accolta da parte di Robert con una serie di concitate esternazioni, cui lei contrappuntò compiaciuta, ormai certa di poterlo condurre ovunque volesse con un semplice gesto. Eccitato, Robert non poté fare a meno di prolungare quel piacere. Immaginò se stesso in piedi accanto al sofà che aveva appena accolto il corpo di Sylvia, lo sfiorò, era ancora caldo. Lei non era più lì, ma nell’aria era rimasto il suo profumo. Si inginocchiò e a occhi chiusi posò le labbra sulla pelle del divano carezzandone gli incavi, intuendo le forme che avevano avvolto; guidato dal suo afrore, aprì la bocca e baciò voluttuosamente il suo sesso, calò i pantaloni e guidò il suo fra le pieghe dei cuscini…

Quando riaprirono gli occhi, si fissarono spaesati, le loro iridi dilatate riflettevano la luminosità diffusa dello schermo. Dov’erano?

Bene, ci siamo fatti entrambi il divano, commentò Sylvia, ironica, in un ultimo messaggio. Non potevano più aspettare.

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***

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Robert rilesse il messaggio che aveva appena inviato: Dove sei? Si vergognò dell’urgenza sottesa alle sue parole, sintomo di debolezza.

Si rimise a leggere. Faceva fatica a concentrarsi, cionondimeno sottolineò un verso ripetendolo ad alta voce con l’esigenza di condividerlo; glielo avrebbe letto non appena fosse arrivata, pensò.

Scrutò di nuovo il telefonino: nessuna risposta.

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Giunta sotto casa, leggendo il suo nome sul citofono, Sylvia fu assalita dall’emozione, al punto da cominciare a tremare. A fatica controllò desiderio e rabbia che s’affollavano dentro di lei. Alla luce del portone guardò la propria mano stringersi a pugno e rimase così, immobile, per qualche istante. Sarebbe stata capace di fargli del male, pensò. Sarebbe stata capace di fare del male a se stessa. Poteva tornare indietro, era ancora in tempo.

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La prima volta aveva voluto sorprenderlo. Si era presentata con un vestitino stretto e i tacchi alti, lui che era abituato a vederla con pantaloni strappati e scarpe da ginnastica senza stringhe. Sotto aveva indossato una guêpière. Voleva fargli provare qualcosa di insolito, di nuovo. Voleva che conoscesse fino fondo il potere della seduzione di cui era capace. Quella volta accolse il suo piacere nella propria bocca, accompagnandolo e carezzandolo fino alla fine.

In seguito, si chiese molte volte cosa l’avesse spinta a comportarsi a quel modo. Forse era per via del ruolo che dall’inizio aveva deciso di interpretare, della volontà di intuire e soddisfare ogni suo desiderio e fantasia. Lei per lui voleva impersonare l’archetipo della donna che conosce il piacere, lo cerca e lo pratica senza inibizioni. Non solo, per lui avrebbe incarnato la giovinezza, la libertà, la vita. E tutto questo, in fondo, così come il modo appassionato e devoto in cui Robert si prendeva cura di lei, le piaceva.

Ma non durò a lungo. Col passare del tempo Robert divenne dipendente e possessivo, si affezionò a lei al punto di voler entrare nella sua vita e manifestare apertamente l’insofferenza che provava per la sua assenza. C’erano giorni in cui le scriveva continuamente, tempestandola di messaggi.

Tutto ciò non era previsto, non era nemmeno possibile. Sylvia era una studentessa del secondo anno, viveva ancora con i suoi genitori. Più Robert diventava invadente, più lei era costretta a evitarlo, a nascondersi, ritraendosi in lunghi giorni di forzato silenzio.

Robert divenne geloso e ossessivo, finché un giorno Sylvia decise che era giunto il momento di troncare, gli diede appuntamento in un locale e gli comunicò che era finita.

Non fu facile, nemmeno per lei. Non l’aveva considerato.

Non si sentirono più per alcune settimane, in cui Sylvia si ritrovò a non aver più voglia di uscire, a rimanere a casa la sera, chiusa in camera sua, a rileggere scritti, poesie e citazioni che dall’inizio, soprattutto all’inizio, lei e Robert si erano scambiati.

Tutt’a un tratto i giorni le sembrarono lunghi e vuoti, allora cominciò a tenere un diario, in cui cercò di annotare e descrivere l’inquietudine che stava vivendo. Rientrata dall’Accademia, trovava una scusa per rifiutare gli inviti e scriveva per ore, di getto, abbandonandosi al flusso del proprio pensiero. Era convinta che fra le pagine di quel quaderno avrebbe trovato delle risposte alle proprie domande.

Ma in fondo era a lui che stava scrivendo.

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Non avrebbe dovuto accettare, si disse. Ma non era riuscita a dire di no. Aveva risposto ai messaggi di Robert mantenendo un voluto distacco, cercando di apparire fredda e insensibile, lontana da qualsiasi forma di trasporto o di coinvolgimento. Robert doveva pensarla affrancata, libera, indifferente. Il loro tempo era scaduto, il giocattolo si era rotto. La verità era che, a dispetto delle sue millantate intenzioni, Robert non sapeva affatto giocare. Lei non gli apparteneva, non gli era mai appartenuta, sibilò. Doveva farsene una ragione, una volta per tutte.

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***

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Robert si comportò secondo il solito copione, cercando di apparire a proprio agio, affabile e accogliente, come se non fosse successo nulla, come se fosse di nuovo la loro prima volta. Ma quando Sylvia entrò in soggiorno e scorse il libro aperto, la bottiglia, i bicchieri, avvertì subito un profondo senso di fastidio. Non poteva funzionare, pensò, non più.

Solo sesso, si erano detti.

Allora perché Robert le parlava di ciò che stava leggendo? Perché declamava versi in piedi in mezzo alla stanza? Sylvia udiva le parole, ma non poteva coglierne il senso. Tutto ciò era fuori luogo, la irritava. Detestava il modo in cui Robert le si rivolgeva, il timbro della sua voce, come muoveva le mani, l’assurda scintilla che gli illuminava lo sguardo.

Robert s’interruppe e la fissò interrogativo.

– Andiamo di là, – disse Sylvia, asciutta.

– Va bene, – acconsentì Robert, appoggiando il libro sul tavolo, un po’ deluso. – Non mi hai nemmeno chiesto di chi è.

– Non mi interessa, – rispose lei precedendolo.

Quando Robert la raggiunse, Sylvia era già seduta sul letto, nuda. Una piccola croce d’oro le brillava sullo sterno.

Robert si spogliò in fretta e si sedette accanto a lei. Le carezzò le spalle sorprendendosi ancora una volta del biancore della sua pelle. La sfiorò con le labbra. Quanto gli era mancata, pensò.

Sylvia si allungò sopra le lenzuola e Robert fece altrettanto. Per un po’ si toccarono in silenzio, poi cominciarono a fare l’amore. Non parlavano, si muovevano senza indugio in un territorio noto e abituale, ma i loro gesti rimanevano freddi e privi di sentimento. Lui provò a baciarla un paio di volte, ma lei scostò il viso ritraendosi. Si girò bruscamente invitandolo a prenderla da dietro. Lui si diede da fare finché lei si fermò di nuovo bruscamente.

– Vuoi provare? – Gli chiese senza voltarsi.

Spiazzato da quella proposta, Robert non rispose. Così non l’avevano mai fatto.

– Se vuoi, adesso puoi farlo, – aggiunse Sylvia guardando dritto davanti a sé.

Robert rimase fermo. Sylvia si girò di tre quarti: allora?, sembrò chiedere con impazienza.

Robert la fissò ancora. Per tutta risposta lei scivolò giù dal letto e uscì dalla stanza. I piedi nudi tamburellarono sul pavimento.

Tornò poco dopo reggendo il grosso specchio che stava appeso alla parete vicino all’ingresso. Robert la osservò mentre cercava il punto più adatto in cui appoggiarlo.

– Qui va bene, – disse dopo aver controllato l’immagine di loro due riflessa nello specchio da sopra il materasso. – Ti darà l’ispirazione.

Robert riprese a muoversi un po’ goffamente, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata ai loro corpi nudi che si muovevano come quelli di due sconosciuti.

– Non ci riesco, – sbottò poco dopo, fermandosi. – Non mi va, lasciamo perdere, – aggiunse accasciandosi sul letto e fregandosi gli occhi con i palmi delle mani.

Sylvia si girò e si stese lentamente accanto a lui. Si levò su un gomito e lo fissò, ma Robert non ricambiò lo sguardo.

– Non è stata una buona idea, – constatò.

Robert annuì.

Allora Sylvia sollevò il lenzuolo e lo gettò sullo specchio.

– Così va meglio, – disse.

Si avvicinò a Robert e lo baciò dolcemente su una guancia. Lui la strinse a sé. Si baciarono sulla bocca, per la prima volta.

Ripresero a fare l’amore, intensamente, con trasporto. Lui era sopra di lei e nel momento in cui sentì che stava per venire, si tirò su senza preavviso e glielo fece prendere in bocca. Lei, sorpresa, acconsentì senza entusiasmo e lo fissò per qualche istante senza capire. Venendo, Robert emise un gemito e farfugliò qualcosa. Sylvia riuscì a udire la parola amore.

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Si rivestirono in silenzio.

Sylvia era esausta, svuotata. Frastornata, non capiva cosa fosse successo, chi avesse di fronte. Quando Robert riprese a parlare, non ascoltò nemmeno una parola. Si sentì sporca, umiliata. Visse gli ultimi istanti con l’urgenza di uscire al più presto da quella casa. Salutò Robert abbozzando un sorriso forzato, lasciandolo sulla soglia a interrogarsi sul suo significato.

Non ci vedremo mai più, giurò dentro di sé.

Rimasto solo, Robert si guardò intorno con aria un po’ confusa. Com’era andata? Cosa avevano fatto? Si chiese. Scrollò le spalle, in fondo stava bene.

Riordinò in soggiorno e andò in bagno. In camera trovò lo specchio, lo sollevò e lo rimise al suo posto, vicino all’ingresso. Vedendo la propria immagine riflessa, d’un tratto si sentì di nuovo a disagio. Istintivamente si tolse i vestiti e rimase nudo davanti allo specchio. Chi era l’uomo che aveva di fronte? Cosa voleva veramente? Prima, in camera da letto, per un istante si era sentito nudo. Era stata Sylvia a spogliarlo e lui, forse per la prima volta, si era visto. Stava cominciando a capire…

In quel momento il suo cellulare vibrò.

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[P.B., 31/10/2020]

Il segnale

Ticchettio

Da tempo non prendevamo più precauzioni. Era bello farlo senza condizionale, come la chiamavamo. Ma quel senso di libertà e spregiudicatezza si trasformò ben presto in qualcos’altro. Non era più come prima. Non c’era il trasporto, l’eccitazione di una volta. Non c’era più il desiderio, sembrava tutto calcolato. Gesti disinvolti e spensierati erano diventati meccanici, forzati. S’erano guastati.
Dovevamo ammetterlo, cambiare rotta. Non c’era più gusto a fare sesso in quel modo. Era una pratica ostinata, priva di ogni forma di seduzione. Specie per mia moglie, che sembrava rispondere al comando del proprio orologio biologico.

Voleva essere madre, se n’era parlato. A me l’idea della paternità non dispiaceva. Ma dopo mesi di tentativi senza rimanere incinta credo che la cosa per lei fosse ormai un’ossessione.
A volte la trovavo in camera, nuda, intenta a guardare la propria immagine riflessa nello specchio grande dell’armadio. Si sfiorava la pancia con una mano. Diceva di sentire un calore all’altezza del ventre, una specie di tepore liquido, estraneo e suo allo stesso tempo. Diceva proprio così.
Poi arrivava il ciclo e cambiava subito umore. Diventava impaziente, nervosa, era quasi intrattabile.

Finché ci fu quella volta. Me ne stavo seduto da solo, in salotto. La testa abbandonata sul divano, ascoltavo un po’ di musica a occhi chiusi. Pensavo alla ragazza del bar, che non credeva che fossi sposato. Per il tuo fine settimana, aveva detto, mettendomi in mano un cd con una raccolta canzoni fatta da lei. Mi aveva sorpreso.
Mia moglie entrò nella stanza, non me ne accorsi subito. Aprii gli occhi e lei era lì, in piedi di fronte a me, nel suo pigiama di lanetta grigia un po’ spessa. L’avevo lasciata che faceva un solitario al computer ascoltando un talent show in televisione e adesso mi stava fissando dall’alto.

Stropicciai gli occhi chiedendomi cosa volesse. Abbassai il volume. Lei rimase dov’era e mi sorrise in silenzio. La guardai, feci altrettanto. Allora lei alzò un sopracciglio, più volte, velocemente. La fissai. Lo fece di nuovo.
Sapevo cosa significava quel gesto, era il segnale.
Non disse niente e uscì dalla stanza senza aspettarmi.
Mi afflosciai sul divano, le mani dietro la nuca. Espirai lentamente.
Ero stanco, terribilmente stanco.

In camera faceva freddo. Si era tolta il pigiama e si era infilata sotto il piumone.
Mi spogliai, misi in ordine i vestiti sopra la sedia. Entrai nel letto, mi mi misi supino, faccia al soffitto. La sentii mettersi sul fianco.
“Che c’è?” domandò.
“Niente”. Chiusi gli occhi.
Mi mise una mano sulla spalla e mi abbracciò. Sentii le sue labbra sulle mie, che risposero controvoglia.
Il suo seno mi premeva lo sterno, sentivo il calore del suo respiro sulla faccia, l’odore del suo alito. Le sfiorai il collo, con due dita scivolai lungo la schiena. Era inutile.
“Si può sapere che hai?” chiese inviperita.

Dissi che non me la sentivo, che ero troppo stanco. La verità è che non sarei mai riuscito a farlo. Pensai al baccalà con patate che avevo mangiato appena rientrato. Serviti, te ne ho lasciato un piatto nel forno. L’avevo scaldato al microonde e mandato giù avidamente, da solo, in cucina. Come mai così tardi?
Mentre il corpo di mia moglie mi schiacciava lo stomaco, per un momento il mio pensiero andò ancora a lei.
Passò la lingua sulle mie labbra chiuse, le leccò due o tre volte come un animale, pensando di eccitarmi. La sentii premere più forte, sapeva quanto mi piacesse stringere le sue tette gonfie quando mi veniva sopra.

Mi montò. Sentii battere il suo sesso, poi un sospiro e mi baciò di nuovo. Il letto cigolò tristemente. Rimasi immobile, inerte, gli occhi che fissavano il soffitto da sotto le palpebre. Deglutii piano.

Si sollevò bruscamente e si lasciò cadere nella sua parte del letto. Il materasso sobbalzò. Si girò dall’altra parte strattonando il lenzuolo, spense la luce. Udii ancora un soffio, una parola, o forse un singhiozzo.
Rimasi immobile, le braccia lungo il corpo, per un tempo infinito.
Nella stanza il frastuono del ticchettio della sveglia.

[P.B., 26/5/2019]

Immagine di copertina – web

Il velo

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“Con la rosa tra le labbra”, Ettore Tito, 1895

“Tu ti masturbi mai?”
Per la prima volta sollevò il velo.
Fu una violenza, consapevole.
Fu come violare il suo mistero per la prima volta. Fu come essere in lei di nuovo, come la prima volta.
Non aveva mai osato tanto. Non avevano mai parlato di certe cose, non avevano mai parlato di quelle cose.
La complicità fra loro si fondava sul silenzio. Erano i loro corpi a parlare.
Ecco. La mano di lei sotto il sacco a pelo che scivola sul suo pene turgido e impaziente, quella volta al rifugio, quando lo fecero in silenzio per non farsi scoprire. La sua mano delicata e gentile. La sua mano, inaspettatamente istruita, attenta, mano di donna bambina.
Quella mano lo sconvolgeva ogni volta, era il massimo della trasgressione. Era la trasgressione.

Ammutolì, arrossì, scosse la testa. Deviò lo sguardo risentita, stordita. Avrebbe preferito uno schiaffo a quelle parole.
Da sempre metteva alla prova la sua capacità di sopportazione, si comportava con lei come l’adolescente con il genitore. Poco importava se fra loro le cose stavano all’inverso.
Tutt’a un tratto le due chiacchiere davanti a una tazzina di caffè si trasformavano in un peso insostenibile, un vero e proprio incubo.
Perché doveva rovinare sempre tutto? Perché non la lasciava in pace?
Non gli erano bastate le avance indecenti di un tempo, l’abuso della sua posizione, del ruolo, dell’ascendente che esercitava su di lei?
Non gli era bastata la loro dannata avventura, la vergogna, il tradimento?
E non gli era bastato averla messa nella stessa condizione: prima amante, poi rinnegata. Ingannata, vilipesa. Tradita.
Per poi tornare ancora da lei, cane bastonato e penitente, a sedurla con l’impudenza di un bambino.
Erano passati anni, ormai.
Non potevano essere amici?
No, non gli bastava tutto quello che le aveva fatto passare, l’aveva capito.
L’aveva sempre saputo. Anche quando l’aveva invitato a passare da lei, quando aveva aperto la porta, quando l’aveva fatto entrare nella sua cucina disadorna. Per spogliarla.

“Io lo faccio spesso”, aggiunse cercando il suo sguardo.
Voleva uscire allo scoperto, dirle tutto, confessare tutto. Voleva che fra loro non ci fossero più segreti.
Erano dei sopravvissuti. Erano ancora vivi. Erano ancora lì, uno di fronte all’altro, col desiderio di scoprirsi, sentirsi, toccarsi.
Voleva che il loro rapporto, scampato a mille tempeste, evolvesse una volta per tutte, che fosse diverso, unico, spudoratamente autentico. Assoluto.
“Se penso a te, vengo subito”.

[P.B., 22/5/2019]

“Anatomia” estratta da un tentativo di romanzo in corso…

Domanda (by fiochelucilontane)

Solo due righe di introduzione. Per non rovinare nulla.
Ho avuto l’onore di ricevere e quindi ospitare questo brano di fiochelucilontane. Intenso, femminile. Intensamente femminile. Forte, palpitante, vivo.
Trae ispirazione dal mio recente racconto, da cui il titolo. Ma vive di vita propria e credo che ne meriterebbe uno tutto suo. Ma non sta a me decidere.
A voi. Buona lettura.
Grazie, Luci.

Domanda

Quando sono entrata ho sentito subito il tuo respiro pesante. Nel buio ho camminato percorrendo i sentieri della casa che conoscevo, e intanto mi chiedevo se ricordassi che avevo ancora le chiavi. Non prevedevo di trovarti in quelle condizioni, ma il piano era preciso e lo avrei portato a termine comunque. Riguardava me, tu non eri che parte della soluzione, sai? E la prima cosa vedendoti è stata ridere, e indossare la maschera che avevo preparato.
Ti ho visto sconcertato, e al mio gesto familiare di arruffarti i capelli i tuoi occhi si sono dilatati. Ho fatto movimenti che conoscevi dopo aver ascoltato il tuo balbettare malaticcio, e seduta davanti a te ho fatto in modo che fra le nostre parole scorresse di nuovo una sorta di confidenza. Pensavo che sarei stata confusa, ma più passava il tempo più mi sentivo sicura. Ti ho chiesto anche come stavi, non che mi interessasse più di tanto, il punto era come stavo io, e poi sei cascato nel mio gioco musicale. Ricordi? I primi scambi fra noi furono canzoni, versi, melodie; quasi troppo facile rifarlo. Sentivo che mi luccicavano gli occhi, era il riflesso del fulmine che mi percorreva, della certezza che volevo trovare.
Ti sei lasciato andare, hai scoperto il lembo della ferita, e io ero tremendamente eccitata all’idea di affondare il coltello. E l’ho fatto. Toccarti era cosa abituale, per quanto mai avessimo fatto l’amore per davvero, ma ritrovare la sensibilità della tua pelle e l’odore di muschio e stanchezza che avevi addosso è stato in qualche modo tenero. Tu non lo sai, ma mentre danzavo con il pavimento pelvico sul tuo io sentivo una canzone, e nella cavità uterina c’era un dolore così profondo da lacerarmi come un parto, la sensazione che le donne provano quando hanno una paura fottuta. E insieme un piacere così violento da farmi dolorare i capezzoli e da strapparmi le labbra a morsi mentre percorrevo il tuo torace scarno con dita di farfalla, con mano di impastatrice lenta, con il tocco di un arpista e i palmi di un ceramista. Ti sentivo lievitare sotto di me, nel punto preciso della cucitura dei jeans, e ogni infinitesimale sussulto del tuo crescere mi faceva gocciolare la schiena, e la mia colonna prendeva la forma del cavalluccio marino mentre il mio pube ti chiamava insistente, insistente, insistente. E tu rispondevi, ma solo con una parte di te. Il resto era lontano, annebbiato, assente e perduto nei pensieri sempre uguali, nei timori indecisi, nelle prudenze perbeniste.

Dove la volevi ficcare eh amore quell’erezione da adolescente? Erezione. Perdio. Ergiti per una volta, mio bianco cavaliere, ergiti maledizione! Non con il corpo però… cosa c’è in te che non sale, cresce, esplode?

Ci avrei giurato, ero venuta apposta, ci contavo forse. Non per far male a te, no. Dovevo guarire dalla tua incertezza. Stavo per arrivare al punto di non ritorno, ma io non ho pensieri o prudenze come te. Potevo affondare il colpo, sfilare i vestiti e portarti alla petite mort, ma spettava a te. Ho staccato la presa, ho tremato per un istante – nonostante tutto lo sforzo io ero presente interamente – e poi mi sono presa la giacca: conoscevo la mia decisione.
Mi hai seguito alla porta come un bambino spaurito, le mani sui genitali e la tua arma in evidenza. Sinceramente era ridicolo, e ho riso di gusto. Ti ho dato una carta, “dobbiamo fare l’amore”, e tu hai fatto come il giocatore di poker che non sa bluffare per vincere. “Non posso, sai Marcus…”. Oh sì, dimenticavo, Marcus, mio marito. Cazzo tesoro, che novità! Dentro la mia testa c’erano insulti, ma ti ho dato una risposta scontata, quella che avresti voluto, quella che ti aspettavi per sentirti tranquillo. “Io voglio te” avrei voluto dire, “te. Senza condizione, senza paura, voglio scoparti, amarti, ferirti, ridere e fottermene del resto intorno. E tu che cazzo vuoi, amore?”. Ma ti ho accarezzato il collo, e sono scesa con i miei tacchi rumorosi per le scale di marmo. E fra il rumore di galoppo che rimbombava per l’androne ti ho sentito farfugliare “ti amo”. Fanculo.
Io, mentre facevo l’amore con te e tu non te ne accorgevi, sentivo Leo Ferré nella testa, solo che la sua voce era la tua, e io ero lei.

Il tuo stile, Leo Ferré.

Voce

La sua voce. Dote naturale, educata, addestrata per anni. Oggi forse un po’ ingombrante, talvolta imbarazzante. Un talento non messo a frutto, come spesso accade, ma non solo. Motivo di contesa e discordia fra lei e la madre. Alla ribellione succedette lo strappo, il silenzio. Sicché oggi è raro sentirla cantare. Ma quando succede – e per mia fortuna accade sempre più spesso, la sua voce mi avvolge e mi trattiene prima ch’io possa fare o pensare. E’ qualcosa di sorprendente; metamorfosi ai miei occhi, magia per i miei orecchi. In quei momenti è come se la sua persona mutasse e assumesse proporzioni diverse.

Ha un corpicino minuto. E quando canta, l’attimo appena prima, si contrae riducendosi ulteriormente. Poi, solleva i polsi e stringe indici e pollici afferrando delle redini invisibili. Chiude gli occhi. Mi pare di sentire l’energia accumularsi all’altezza del suo stomaco. E sgorgare, da lì, in un lungo gemito profondo, crescente, sempre più potente, inseguito, ascoltato, modulato. Domato. La sua voce come altro da sé, come bestia addomesticata. Quando la lascia andare, la sua forza sproporzionata mi disorienta. Immerso in quel suono, la vedo con altri occhi. Il suo corpo uno strumento smisurato.

“Ti canto un pezzo della Cenerentola di Rossini”, dice dopo aver scaldato la voce. E’ contralto, merce rara. Di una bellezza ambigua e schiva, ancor più difficile da accettare. Ma in lei vivono tante voci e a me piace ascoltarle tutte. Quella un po’ roca, sospirata e tesa, dei momenti in cui vivere sembra una trappola senza via d’uscita. Quella misurata, ma energica e decisa, che così ben s’accorda alle lezioni di psicologia. Quella sopra le righe, esasperata e urlata, per sfogo o protesta. Quella stridula e lacerata dei momenti di paura.
Ne conosco i picchi, l’onda gonfia. Il frangersi in risata, il dilaniarsi in pianto rabbioso. Il mugolio amoroso. E il tono brusco e canzonatorio con cui mi rimbrotta, mi pungola, mi promuove. Quello delizioso e crudele con cui si fa beffa di me.

Ma c’è un momento in cui riesce ancora a sorprendermi. Accade quando è più allegra, un po’ su di giri. Mentre beviamo un bicchiere di vino stuzzicandoci a vicenda e infine lei prende l’iniziativa e mi scuote con le sue domande. E’ in quel tempo di lieta attesa, in cui mi invita ad avventurarmi con lei in un dove inesplorato, è allora che odo un mugghiare di metallo morbido attraversarle la gola, e le sue parole vibrare come cristallo strofinato dal vento. Ascolto inebriato quel riverbero e vi riconosco un’armonica, una nota dominante, che è solo sua. La adoro, come amo il modo in cui si manifesta, a un tratto, luce al tramonto sulle rocce, illuminandole il volto.

Acqua

 

uomini e donne
di carta e di cera
di aliti ventosi
rivoli di fortuna.
ma cari miei
solo acqua che fugge via!

(I. Pedretti)

“Certo che ha un bell’odore il tuo coso, lì”, disse senza distogliere lo sguardo dalla tv.
Lui si voltò. Sorrideva divertita. Continuava a fissare lo schermo, in attesa.
Aveva capito, ma fece finta di no, non disse nulla. Lo faceva spesso, prendeva tempo. Lei lo sapeva. E lo aspettava.
Erano seduti sul divano, vicino alla stufa. Si erano tolti le scarpe e poggiavano entrambi i piedi su una sedia.
“Non dici niente?”, lo spronò. Fece un cenno col mento e mosse gli indici delle mani, che teneva intrecciate sul grembo. Lui guardò nella direzione che aveva indicato, dritto su di sé. Si sporse verso di lei e fece finta di annusare l’aria. “Ma cosa fai, stupido?!”, esclamò lei, mettendosi a ridere. “Smettila, che già mi mette abbastanza imbarazzo”. L’odore, era vero, si sentiva bene.
“In effetti si sente bene”, disse lui. “Sicura che non sono io?”
“Ma va!”
“Sai, non ho nemmeno fatto una doccia”.
“Nemmeno io. Mi sono sciacquata, ma non ho tolto tutto. Ne era rimasto un po’. E adesso è sceso”. Lui la fissò, poi la baciò sulla fronte. La fissò nuovamente.
“Perché mi guardi così?”, chiese lei. “Sorridi, sembri quasi contento”, si ritrasse un poco nel suo angolo di divano. Faceva sempre così. Si scostava e lo guardava da un po’ più lontano. Lo faceva per vedere meglio. Per capire. Per capire se quello che sentiva era vero. I suoi occhi guizzavano in cerca di una conferma.
A lui sembrava che gli leggesse dentro. Non era sempre facile lasciarsi guardare così. Né rispondere alle domande che normalmente seguivano. Era come se lo trapassasse.
“Vieni qui”, disse lei.
Lui l’abbracciò. In realtà lasciò che fosse lei ad abbracciarlo. Non desiderava altro. Si stese su di lei e le poggiò il capo in grembo. Lei lo strinse a sé. Sapeva che ne aveva bisogno. Lei sapeva ogni cosa. E a lui andava bene che le cose stessero così. Potersi fidare.
“Mi spiace che tu non possa averne”, gli aveva detto il giorno prima.
Era tanto che non ne parlavano più. Stavano bevendo un caffè al tavolino di un bar prima di andare al lavoro, quando lei aveva pronunciato quelle parole come se non avessero alcun peso. L’attimo dopo sembrava che stesse già pensando ad altro. E invece pesavano quelle parole, eccome se pesavano. Anche per lei. Ma trattarle così era meglio. Per entrambi. Lei sapeva anche questo.
“Spiace anche a me”, le aveva risposto lui.
Stare con lei era come essere nudi. Sempre. Lo faceva stare bene. Per questo motivo oggi non diceva niente. Perché non ce n’era bisogno. Lei sapeva la risposta prima ancora che lui riuscisse a formularla. E allora rimase in silenzio.
Chiuse gli occhi e pensò a lei che lo chiama sul balcone per salutare la luna. Alle lacrime che le increspano gli occhi, per un ricordo. Al suo ventre. A quel calore. A quell’odore. A quel rivolo.
Riaprì gli occhi. “Sarebbe bello potesse venirne fuori qualcosa”.

Seni

La pudicizia (seni) - A. Corradini

“La pudicizia”, Corradini – web

Non sono uguali. Ma ugualmente belli. Uno più sodo e gonfio, il primo, il preferito. L’altro, non più piccolo, ma alleggerito, la pelle morbida che s’incurva appena; giovane e fresca, non fa una grinza. Ho il sospetto che con quello senta di più. In quei giorni, invece, l’altro è teso come un tamburo, è un campanello d’allarme, duole solo a sfiorarlo. Sono belli. Gliel’ha detto anche il dottore. Le ha fatto i complimenti: perfetti, ha detto; ha usato proprio quella parola. E se ne intende lui, ne vede tanti. Sono belli e importanti, in quella figura di bambola e bambina. Li amo. Amo quelle due capocchie rosse e la crusca che le contorna. Amo quelle forme diverse e la loro pelle opalina. Amo il respiro che le anima. Amo quell’asimmetria: all’inizio non l’avevo nemmeno scorta, complice un artificio di spugna. E’ stata lei a rivelarmela, una specie di anticipata confessione. Poi il desiderio, la confidenza. Mi manca. Tutto. Mi manca tutto di lei. La più piccola imperfezione, la più piccola anomalia. Ciò che la rendeva unica. Ciò che la rendeva mia.

Mani

 

Ratto di Proserpina - Bernini - Mani

“Il ratto di Proserpina”, Bernini – web

Quella cosa delle mani. Strano, mi viene in mente solo adesso, quando è tutto finito. Certe cose la nostra mente ce le propone solo nel poi. In realtà credo che tornino, risalgano in superficie. Perché son sempre state lì, dall’inizio. Dal primo giorno, dalla prima volta. La prima volta che l’hai sfiorata, l’hai toccata, l’hai fatta godere. Lei che a un tratto apre gli occhi e sussurra una frase, una domanda. “Che mani hai?” Tu che ti fermi e la guardi stupito. Rimani così per un momento, interdetto, cercando qualcosa da dire. La battuta pronta non ce l’hai, così t’interroghi sul senso. Che mani hai? Che razza di domanda è? Fai a tempo a pensare che le tue mani, le tue dita affusolate non hanno proprio niente che non va. Qualcuno te le ha pure ammirate, te le ha invidiate. Vorresti alzarne una e contemplarla insieme a lei, proprio in questo momento. Ecco, adesso la sfili dalle sue mutandine, aspetti che lei apra gli occhi e gliela fai vedere, le dita divaricate, mentre la giri: prima il palmo, poi il dorso. Le mie mani? Cos’hanno che non va le mie mani? Le chiedi. Che difetto ci trovi? Ma non lo fai, non è così che vanno le cose. Il richiamo della sua pelle, sempre più attraente, del suo respiro, sempre più esigente. Così metti via il pensiero e ti immergi di nuovo anche tu. Anche se in un angolo da qualche parte nella tua scatola cranica s’annida una piccola bolla d’aria. Lei è lì con te, sta godendo, eppure in quello stesso momento ti sta misurando, ti sta confrontando. Con chi? Ricacci il pensiero e continui. Non è un problema, non è successo niente, ti dici. Più vai avanti e più non senti niente. Una bolla molto più grande, umida e calda, in grado di contenere il tuo corpo e quello di lei insieme, un’aura avvolgente ti isola, ti solleva, ti permea dell’assordante fruscio della sua bambagia. Sei solo battito e respiro ora. E lei con te. “Non sono mani da uomo”. La sua voce, di nuovo, in un mugolio. Poi ancora, appena più salda: “Non hai nemmeno un callo. Sono lisce…”. Ora apri gli occhi e la fissi. Lei schiude appena le palpebre e le serra subito dopo, come per non vederti. Tu le accarezzi le natiche accennando un timido buffetto, le serri un seno senza convinzione, con l’altra mano lasci andare i capelli e la stringi appena sotto la nuca. Infine ti fermi, indeciso sul da farsi. Un timore reverenziale ti impedisce di posare di nuovo le dita sul suo sesso. La sua di mano, però, non si ferma. Anzi, prende a muovere con più forza. Ti chiama. Allora ti insinui di nuovo nel suo umore, aumentato, espanso, che accogli e lasci dilagare dentro te. La baci, le mordi le labbra, il collo. Lei geme per la paura di non riuscire a trattenersi, di non trattenere il piacere che le dà essere amata da un uomo e una donna simultaneamente. Infine ti ferma, si ferma, respira. E ti chiede: “Adesso cosa vuoi fare?”

[P.B., 29/5/2016]