Mi è stato fatto notare, a ragione, che il mio filtro da lettore, che definirei amaro, non è stato del tutto (affatto) equo nella selezione di poesie del collega e amico Stefano, pubblicate qui.
Colgo allora l’occasione della pubblicazione di una delle citate poesie nella rassegna domenicale di Flavio Almerighi (gioielli rubati) per… aggiungere un po’ di zucchero alla precedente proposta.
Dopo anni di convivenza pressoché silenziosa a pochi metri di distanza, un giorno Stefano si affaccia ed entra felpato nel mio ufficio. Non è per questioni di lavoro, deduco osservandolo scrutare fuori dalla finestra in silenzio. Se parla di lavoro è per rompere il ghiaccio, mi dico. E così è. Dopo qualche balla su quel tal progetto e i conti che, come sempre, non torneranno, fa per uscire quand’ecco si volta, si irrigidisce, mi punta un indice addosso e spara: Tu sei un poeta, no? Ora sono io a irrigidirmi: è una domanda cui non so rispondere. Se lo faccio, dico sempre qualcosa di cui pentirmi. Per cui sorrido, in silenzio, sprofondando un po’ sulla sedia, i miei monitor mi fissano come due condanne.
E’ così che alcune pagine dattiloscritte sono finite sulla mia scrivania.
Ah, non è mica stato così semplice. Stefano, Fusto per chi lo conosce un po’ meglio, è persona accurata, ponderata, riflessiva e molto cauta. Le sue parole, quelle giuste, bisogna saperle aspettare. Ti si avvicina, ti scruta con uno di quegli sguardi che ti fan dubitare che sia davvero lì con te e, se non è ancora il momento, scuote la testa e se ne va senza dire niente. Col tempo si impara ad attenderlo, il momento.
E’ così che ho scoperto che Stefano, la notte, scrive.
Lo fa su un quaderno a quadretti con i fogli tenuti insieme da una spirale, qualche giorno dopo me l’ha mostrato. L’ha sfogliato con aria complice e ha detto: Adesso ne trascrivo qualcuna, non l’ho mai fatto. Sono seguiti sguardi, mezze parole e ammiccamenti nei corridoi dell’ufficio, finché una mattina apro la posta elettronica e trovo una sua mail. Il nostro piccolo grande segreto, da trattare con cura.
Io non so se Stefano sia un poeta. So che anche lui come tanti avverte l’esigenza di tracciare sulla carta sensazioni, pensieri, memorie, sogni, ferite. E lo fa senza cercare parole speciali o costruire immagini, bensì usando gli strumenti che ha a portata di mano. Io me lo sono immaginato, nella sua taverna, la stessa in cui scolpisce il legno e distilla liquori. Me lo son visto seduto sul suo divanetto rivestito di lana, un bicchiere in una mano, l’altra che gli tormenta il volto. O al tavolo di cucina, la mattina presto, prima di andare al lavoro. Come Paterson, il protagonista dell’omonimo film.
Io non so cosa sia la poesia, ma ho capito che a volte è fatta di cose semplici, e vere.
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Padre di figlie femmine,
occultatore di cadaveri,
minaccia per giovinastri malintenzionati,
gambizzatore a domicilio.
Padre di figlie femmine,
finto libertino,
nottambulo tachicardico.
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Parole.
Un sacco di parole.
Per celare la mia vera intenzione.
Poi rapido.
Furtivo.
Un bacio.
Poi, ad occhi chiusi,
l’attesa interminabile
di un tuo enorme schiaffo.
Poi le labbra.
Le tue.
Prima delicate.
Poi decise.
Sono in paradiso.
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Ora sono sveglio.
Peccato.
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Eccoti.
Sei arrivata.
Ora non sento più nulla,
ma non mi importa.
Ora nulla ha più senso,
sono completamente assente.
Ora sento tutto,
sento tutto molto forte.
Non sento più caldo,
ma neppure freddo.
Non ho più tristezza,
ma neppure allegria.
Non ho più entusiasmo,
ma non saprei cosa farmene.
Non sento dolore,
ma neppure piacere.
Non sento più fame,
tuttalpiù sete.
Non so che giorno è,
ma non è rilevante.
non so che ore sono,
non so dove sono,
non so chi sono,
non sento la pioggia.
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Tutto mi hai tolto.
Tutto ciò che mi faceva volare.
Tutto il mio essere.
Tutto il mio sangue.
Tutto il mio corpo.
Tutta la mia anima.
Ora hai tutto di me.
Sono morto più e più volte,
e più e più volte sono risorto,
per poterti dare ancora qualcosa.
Ma ora è finita,
sono completamente svuotato.
Anzi no.
Ora sono pieno si sensi di colpa,
perché non posso più darti nulla.
Mi hai tolto tutto.
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Piedi fracassati,
mani insanguinate,
porte disfatte,
mignoli gonfi,
urla urlate,
polsi doloranti,
ginocchia piegate,
pianti accarezzati.
Dure sentenze
acclamate dall’interno
basate su giudizi
di gente senza senno.
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Non cercate una metrica,
non la troverete.
L’Amore non si può definire,
né tantomeno misurare.
Non cercate delle rime,
non le troverete.
Le Emozioni non vanno in coppia,
sono uniche ed irripetibili.
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[Stefano Fustinoni, Novembre 2020]
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Immagini di copertina: Lucciole elettriche e Specchio di neve, di Laura Salvi
In questi giorni mi rifugio in qualche breve lettura. Versi, come morsi d’esistenza, di presenza a me stesso. Un breve, ma importante calore, goccia di linfa nella cannula che mi tiene in vita.
P.
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Amo
del tuo volto
il tenero
versante
di luce
che ho sognato
accennare il mio
nome
contro un giorno
da mettere
al mondo
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[da Dormire di gioia]
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Quest’albero
che “tu” hai cresciuto
nel mio seno
duro come un cadavere
in un affanno cosmico
ispessisce
ed è la crudeltà
che tu piantasti
per essere ingannato
mentre io
relativa
t’abbracciavo.
Sento nel mio corpo
quel seme
che piantasti,
farsi albero,
crescere… ispessirsi
dentro un affanno
cosmico.
La crudeltà
mi ha preso
di stringerti
e ingannarti.
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[da Canto di madre]
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[Claudia Ruggeri, da Canto senza voce, Terra d’ulivi edizioni, 2013]
C’è una parola ricorrente nelle 52 poesie che compongono questa silloge, ed è rivoluzione. Roberto Concu ha la voce dell’uomo vissuto, di colui che è andato al di là del mare e canta l’eredità che il viaggio gli ha lasciato; spesso la sua è la voce di chi si rivolge al più giovane con parole di ammaestramento. Ma Roberto non è ancora giunto, né s’è placata l’eterna rivolta insita nella ricerca della verità, originatrice di poesia. Perché l’ignoto è la memoria che nutre la parola.
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Verrà
verrà il tempo
in cui riabbracceremo
tutto ciò che siamo –
tigre e colomba –
con la compassione
che sola nasce dall’Amore.
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Allora faremo festa insieme
danzeremo
la danza dell’anima
sulla tavola imbandita
faremo rivoluzione insieme
avremo il coraggio di chiamare
Eternità
quel tempo
fosse anche per un istante
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Insegnami
l’essenza dei tuoi sguardi
insegnami
come il mare
a guardare il fondale luminoso
come il vento
ad andare oltre le stagioni
insegnami
la rivoluzione e la compassione
i sogni del silenzio
riconosciuti sul palmo delle tue mani
Insegnami
la danza della leggerezza
il passo dell’amore che salva
imprimi in me
il sigillo dei tuoi passi
come fossi sabbia
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Dormono nella campagna
le bianche rose, le calendule, i nasturzi
se sapessero della nostra pena
ne morirebbero
perché siamo come loro
fiori tra i fiori
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è tutto ciò che so
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Nevicano fiori
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la mattina
è una coperta fredda
sulle tue labbra
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con l’addio della luna
bacio le tue palpebre
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la luce è l’anima dei tuoi occhi
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Non aver paura di seguire
il cuore sin dentro te stesso
laddove tutto è chiaro e possibile
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Lascia che le illusioni
scivolino via tra le dita
quando sarà il momento del coraggio
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non far differenza
tra verità e paure
son come fiori
la cui freschezza annuncia
la loro stessa rovina
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non temere di percorrere
le strade dei sogni e osa
osa
perché ogni rivoluzione
passa per l’audacia del sogno
e il coraggio dell’azione
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Non aver paura di
osservare come lente
crescono le querce
di guardare gli altri negli occhi
senza giudicare
scoprirai che la vita non è lotta
se non per i cuori grevi
e ogni sogno
sarà l’osare dell’amare
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[Roberto Concu, Tutto ciò che so, Terra d’ulivi edizioni, 2015]