La carta si fa tutta parlare

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Ripropongo qui un mio racconto dal titolo Sabato Santo, segnalato nell’ambito del concorso “Una cartolina da Matera”, IX edizione, indetto dall’Associazione Culturale Matera Poesia 1995.

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Francesca prende posto nella sala d’aspetto. Con un sorriso tirato mi fa cenno di andare. E’ tutto a posto, dice, non ho più paura, sto bene. La fisso e capisco che ormai sono di troppo. Riluttante, mi avvio verso l’uscita. Vai, ripete lei seguendomi con lo sguardo, non ti devi preoccupare, andrà tutto bene.

Fuori fa freddo, tira un vento insidioso. Faccio colazione in un bar vicino alla clinica. Un ragazzone dall’aria pacifica mi serve in silenzio, mentre il parlottio della radio si sovrappone al turbinio dei miei pensieri. Una coppia di pensionati con un cagnolino prende posto a un tavolo vicino al mio. Li osservo compiere con calma il rito quotidiano: la vita si nutre di piccole abitudini; la bestiola di quel che rimane della loro colazione.

Mani in tasca, m’incammino a spalle strette nel vento fino a un crocevia congestionato dal traffico. Lascio passare uno o due verdi e alla fine mi mescolo al flusso dei turisti dei giorni di festa in direzione del centro. Orfana di mura e bastioni, una porta millenaria guarda impassibile la fiumana che sfila ai suoi piedi.

Sotto i portici, sono in balia di un vortice di suggestioni. Ho i nervi tesi. Mi sento come Giona nel ventre della balena. Le pareti delle logge mi parlano stridendo, manifesti e scritte gridano inquietudine e dolore. Cammino ed è come leggere il diario di un collettivo in subbuglio. Mentre avanzo, per terra o sui davanzali delle finestre, i resti di bottiglie e bicchieri testimoniano la catarsi che in città ha luogo ogni notte. All’ombra delle volte istoriate con manifesti e bombolette, respiro un’inquietudine diffusa.

Ma a tratti la bellezza riemerge e colpisce con veemenza: un portone graffitato mi costringe a fermare il passo per ammirare quello che sembra un moderno giudizio universale, contorni inchiostrati su sfondo di vernice chiara, un mosaico di figure umanoidi, in bilico fra oscenità e rivelazione.

Avanzando verso il cuore della città, botteghe e insegne multietniche cedono il campo ai marchi globalizzati e alle vetrine allestite per i consumatori di un mondo ideale. Eppure, anche da sopra il bancone di un’elegante boutique, la gigantografia di un uomo a mezzo busto riesce a urlarmi in faccia il proprio disagio attraverso il filtro di un bianco e nero d’autore.

“Abbiamo finito i buoni sentimenti”, ripete un manifesto affisso su muri e colonne del porticato; è firmato da un gruppo di artisti. “A G I T A T E V I”, esortano a gran voce altri pannelli, più grandi, dal piglio avanguardista; “call for artist”, scritto piccolo in basso a destra. Anche la rabbia è divenuta materia da esposizione. E così la tensione sociale viene interpretata, stigmatizzata, resa astratta. Incanalata. Imbrigliata.

Giunto nella grande piazza, i monumenti mi appaiono vetusti e stanchi, anche solo di essere fotografati. Alla luce del sole si parla per lo più inglese o tedesco. La balena mi vomita dalla sua bocca e io mi abbandono alle correnti, ondeggiando fino al sagrato del duomo. L’ingresso è piantonato da due soldati in mimetica, mitra in spalla. Sono entrambi molto giovani, un uomo e una donna, custodi dell’eden del terzo millennio. Resisto all’istinto di andarmene e li guardo in faccia. Mi sorridono amabilmente, invitandomi a entrare.

L’aria è rarefatta dall’immensità del vuoto delle volte sopra di me. I turisti si muovono a gruppetti, come piccoli banchi di pesce, attraversando il tempio da un altare all’altro. Mi segno e avanzo anch’io lentamente lungo la navata centrale, luminosa. Accanto a me i ragazzi di una scolaresca ridacchiano osservando un crocefisso steso a terra, avvolto in un lenzuolo.

La platea è quasi deserta. Prendo posto in una fila di sedie impagliate, vicino a due ragazze intente a scorrere gli schermi dei loro cellulari. Discosta, vicino a una colonna, un’anziana è raccolta in preghiera. Qualche fila più avanti, la schiena di un uomo inginocchiato.

Fisso il legno del crocefisso appeso sopra il transetto. Per un momento provo a non pensare a nulla, a non sentire nulla.

Non riesco a pregare. Non posso. Credo di non aver diritto di dire, di non aver diritto di essere ascoltato. Cerco solo di non fare del male, ma continuo a sbagliare.

Era la cosa giusta da fare, mi dico, ancora una volta.

Come starà adesso? Sono passate due ore da quando l’ho salutata, non potrò rivederla fino a stasera. I medici han detto che dopo l’intervento sarà debole e proverà dolore. Per un paio di giorni non potrà mangiare. Stasera le porterò dei fiori. Potrà mai perdonarmi?

Le ragazze si alzano strisciando le sedie. Anche l’uomo si è mosso. Lo osservo avanzare verso l’altare per scattare una foto al Cristo in croce. Nel gesto, il loden gli si apre come il mantello di un chierico.

È ora di andare. Fuori il sole è più alto, l’aria si è intiepidita. Mi incammino per la via da dove sono venuto, fra turisti, migranti, venditori. Su uno stipite leggo: Oggi è un passato scomodo”.

È vero, suona proprio bene.

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[Sabato Santo, da La carta si fa tutta parlare, 2023, Terra d’ulivi edizioni]

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Una cartolina da Matera

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Un mio brevissimo racconto, dal titolo Sabato santo (apparso qui in una sua prima versione), ha ricevuto menzione al concorso Una cartolina da Matera – IX Edizione indetto dall’Associazione Culturale Matera Poesia 1995.

L’occasione è graditissima per visitare nel mese di ottobre la suggestiva città, incontrare altre persone che scrivono e, perché no, farne viaggio a parole.

P.