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Me lo sparo in cuffia. Lo so, il verbo “sparare” non s’addice a un quartetto d’archi, ma tant’è. Me lo sparo in cuffia, perché quei due mi hanno rotto i coglioni: ogni volta che metto un po’ di musica, iniziano a ridere. Prima lei, poi lui, che le va dietro come un cagnolino, dandole corda. Non hanno i miei stessi gusti, è normale, apparteniamo a tre generazioni diverse, quindici anni l’una dall’altra. Si può ridere di me, ma non della musica che ascolto. Shubert, Quartetto n. 15 in Sol maggiore.
Chiudo gli occhi e m’immergo nell’attacco, accordi in crescendo, soffocati all’ultimo. Presagio, mistero. Qualcosa che arriverà, inesorabile, nonostante l’allegro passo di danza con cui incalza il tema conduttore. Non l’hai ancora capito, ma stai già vivendo il continuo alternarsi di emozioni e stati d’animo contrastanti che ti accompagnerà fino alla fine. In dieci battute le variazioni e l’inventiva di un ventennio di Pink Floyd. Poi è il mondo di oggi ad andar veloce. Baggianate. Siamo diventati tutti sordi. Alla bellezza. Del rumore e dello scempio che insidiano le mie pause pranzo al bar non parlo nemmeno. Tanto varrebbe infilarsi dei tappi nelle orecchie, mettersi il paraocchi e concentrarsi sulla propria masticazione, sarebbe molto più istruttivo.
Anche le mie cuffie hanno i loro pregi: mi tirano fuori da qui. Le calzo, clicco sul play e non li sento più ridere, né parlare; i miei colleghi d’ufficio e quelli sul corridoio. Mi accorgo che qualcuno s’affaccia e mi fissa, ma lo ignoro, non alzo volutamente lo sguardo dal monitor, finché non se ne va pensandomi impegnato in qualche videoconferenza. Alzo un po’ il volume e non sento più squillare nemmeno il telefono; che comunque scelgo io a chi e quando rispondere. Sono isolato, libero. Non più seduto a questa scrivania stanca, a battere su una tastiera incrostata di polvere, briciole e caffè, in mezzo alle scartoffie.
Eh, ma la musica pop, il rythm&blues! direbbe lei. Gli intramontabili anni ottanta! Rod Stewart, Elton John, … e via discorrendo. Per essere nata dopo l’uscita dei loro più grandi successi, ne sa fin troppo, questo glielo riconosco. Come ritrovo in ciò che ascolta la stessa “energia positiva”, lo stesso sorriso, che a volte mi sembra un po’ forzato, con cui vuol prendere per il verso giusto ogni nuova giornata. La musica la sente, e bene, ma è come se avesse paura di attraversarne le ombre, di andare in profondità. Di perdersi. Proprio ieri sera, di ritorno dalla palestra, accompagnavo le curve tamburellando il volante e ondeggiando ipnoticamente la testa sulle note di Do ya think I’m sexy? Non sono un cervellotico ameba. Quando ci sta, ci sta. Tutto: anche il nasone e il suo assurdo taglio di capelli. Ma che me ne faccio di una ritmica ballata, sempre uguale a se stessa, come un tiro di sigaretta. Non è la vita che voglio. Chi dice che non si possa trovare trasporto, sensualità, ritmo, percussione, adrenalina in quartetto d’archi? Il più grande musicista rock per me? Ludwig van. La più grande anima rock che conosca. Alex la sapeva lunga. *
Mi concentro sul mio Shubert, che va più veloce di me e della mia capacità di cogliere le sfumature e il mistero del suo spartito. Per un attimo provo a capire, a “sentire”. Mi affascina e mi seduce, invitandomi in un altrove che credo sublime e salvifico. Il rischio è proprio quello di non farcela, di non riuscire a volare, di rimanere a terra, umiliato e deluso al pensiero di non poterlo mai fare. E mi torna in mente un film che vidi tanti anni fa, quand’ero ancora studente. Non ricordo il titolo e a dire il vero non lo voglio sapere. Oggi potrei fare una breve ricerca in internet e riscrivere il ricordo, parziale e falsato, anche solo dal fatto di averlo visto in francese. È mio e basta. Me lo tengo così, ci sono affezionato. Le “verità di memoria” hanno un grande valore, ormai, sono merce rara. Di questi tempi si ha una facilità estrema nel riscrivere le storie, anche quelle personali. Ma veniamo al film. Il protagonista, un abbiente borghese in cerca di nuovi stimoli in amore, interpretato da un fascinoso Depardieu nel pieno dei suoi migliori anni, tradisce la bella moglie con una donna dimessa, dall’aspetto scialbo, tracagnotta, una qualsiasi impiegata conosciuta per caso, per niente elegante o attraente. Nessuno Basic Instinct, per intenderci, né l’ossessione possessiva del protagonista de La noia per la giovane dalle forme generose che pratica il sesso con disinvoltura e distacco così disarmanti da fargli perdere il senno. Eppure anche in lui scatta una molla, un’ostinazione. Vuol dimostrare qualcosa prima di tutto a se stesso. Il sesso e la ricerca del piacere fra i due diventa un percorso complesso e impegnativo, una lenta e faticosa conquista, in grado di dargli un nuovo significato. Fanno l’amore per ore, interi pomeriggi in cui i loro corpi si sovrappongono e si fondono, abbandonati su divani, moquette, letti sfatti di albergo, in incontri improvvisati. Ricordo una lunga scena di discussioni, seduzione e amoreggiamento, girata in metropolitana. Devo aver compreso meno della metà dei loro dialoghi. Tuttavia, sono convinto che ci fosse sentimento, puro, oltre la caparbietà di dimostrare a se stessi che quella relazione fosse possibile.
La colonna sonora era stupenda. Tanto, come a volte succede, da essere protagonista a sua volta. Shubert e i suoi archi la facevano da padrone. La musica era l’amore, la perfezione, l’utopia. Era ciò che mancava, ciò che si stava cercando.
Le cose, però, non vanno a buon fine, né avrebbero dovuto, in fondo. Come prevedibile, Gérard torna nella sua bella casa, dalla sua bella moglie, algida ed elegante. Ma prima di farlo, si toglie uno sfizio, in una scena che resterà per sempre impressa nella mia mente. È notte e sta camminando per strada; deluso, svuotato, arreso, sta facendo ritorno alla sua vita di prima. I suoi passi risuonano nel silenzio. La camera lo riprende dall’alto di un punto sopra di lui, come uno di quei lampioni in mezzeria, appesi ai fili che vanno da un lato all’altro della strada. Lui sfila via; allontanandosi, la sua figura rimpicciolisce. A un tratto, però, si ferma, si volta e torna sui suoi passi, riavvicinandosi. Giunto a pochi metri, alza la testa e guarda dritto in camera, furibondo. Alza un dito e grida: Il me fait chier votre Shubert!! Vous comprenez? Il me fait chier!!
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* Alex DeLarge, protagonista di “Arancia meccanica”, Anthony Burgess, 1962.
[05/05/2024]