Kintsugi

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Stefano Colletti fa poesia intima e universale. I suoi versi sono una riproduzione pittorica della natura specchio dell’anima. La luce dà forma, colore, movimento, vita a ogni cosa. La plasma, la definisce, e nel farlo rappresenta il mondo interiore dell’autore.

“L’idea del Kintsugi è che gli oggetti, gli utensili di porcellana che cadono e si spezzano, possano trarre da questa rottura una nuova bellezza: l’artigiano rimette insieme i pezzi grazie a una saldatura in oro fuso. Una cicatrice molto evidente, quindi, che però impreziosisce il piatto, l’urna, la tazza”.

Kintsugi è in qualche modo un racconto in versi, delicato e malinconico. Un percorso introspettivo in un preciso periodo della vita di un uomo, durato sei anni. Niente di straordinario, precisa l’autore:

“… questi sei anni, che hanno visto la crisi e poi la fine del mio matrimonio. Nulla di particolarmente originale, di questi tempi, ma da una parte l’acutezza e la saturazione con cui il dolore si è manifestato, dall’altra il poter scrivere di un’esperienza assai comune e davvero di portata esistenziale, mi hanno spinto a redigere una sorta di cronaca in tre momenti di come un amore appassisca, finisca lasciando il vuoto e lo sgomento, e infine permetta al terreno arso di ritrovare rugiada.”

Nulla di particolarmente originale e tuttavia essenziale, esistenziale, determinate, stravolgente, come solo l’ordinarietà delle cose sa essere. Prezioso come l’oro dei versi che hanno dato vita a questa raccolta.

La separazione genera una nuova persona, una nuova sensibilità. Il processo di rinascita e ricostruzione è lento e faticoso, paziente. Origina da cocci e frammenti di qualcosa che era prima ed è andato in pezzi. Ora è altra cosa, simile solo in apparenza a ciò che era prima. Arricchita, trasfigurata dal lavoro stesso di ricomposizione, “la ferita è risanata nel modo più prezioso” (Giancarlo Sissa).

Il Kintsugi di Stefano è durato anni. Maturato nella parola vissuta, avvicinata e trattata con cura e devozione, fino a farne elegante e avvolgente poesia di luce, armoniosamente attraversata e donata al lettore.

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L’opera di Stefano Colletti si divide in tre parti, che seguono una cronologia. Riporto di seguito solo qualche estratto della prima, dal titolo: “I fogli del libeccio“. Mi ripropongo di proporne altri in futuro, condividendo così qualche frammento di un importante percorso che invito a compiere per intero.

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QUATTRO VITE

1

La semplice luce del sole, l’erba che si fa blu

All’orizzonte e il temporale che è solo

Una vescica di ruggiti – a questo meccanismo

Di precisione mancava solo la tua rotella dentata.

La nocchia bivalve è perfetta, tu sei la perla.

Non lo sarai a lungo, poi non lo sarai più.

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2

Forse c’è vita anche dove si va

Per un motivo. Ieri il motivo era afferrare

La stanchezza per la gola e tenerla ferma

Per farne un ritratto. Non ce l’ho fatta,

Ho navigato il calore per nulla.

Sceso rive su rive per nulla.

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3

Quello che ammazza sono le mattine.

Il ghiaccio fin dentro la terra, il momento

In cui è chiaro che sopravvivrai da solo.

Le siepi non sanno, né tua madre né

Il tuo stesso sangue, che il tuo nome soffoca

E la tua carne è pietra per i licheni.

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4

Canta per il tuo compleanno,

Canta d’agosto, perché non sai più

Le preghiere che ti avevo insegnato.

Quando la neve verrà sul grano

Che sarà, e lustrerai gli sci

E salirai in montagna – canta la canzone

D’agosto che è la migliore che sai.

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FAME DELLA CARNE

Agli angoli di strada sosta

L’umanità che non alza lo sguardo

Per il volo di un airone.

Qui non fa mai

Temporale, al più piove

Pioggia torbida che porta via

Mozziconi di sigarette

E lembi di stoffa bigi,

Strappati di dosso a chissà chi.

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Le voci lasciano cerchi

Graziosi come sassi in un’acqua nera.

Guardo la sera dietro

Le finestre, i cani al parco

Ne imbastiscono l’orlo.

E in tutto questo, io

Non ho capito

Altro: il fluido sparire

Incessante del mondo di uomini

E animali, città e campi dissacrati,

Il vento cieco, il sole

E le stagioni,

Sono solo la fame della carne –

L’episodio elettromagnetico

Che pulsa e tace

E si nasconde,

E torna a pulsare negli aeroporti

O sui boulevard

Come un’infezione.

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ADESSO CHE NON CI SEI

Adesso che non ci sei,

La casa si flette appena come le erbe

Alte dei campi, e io resto seduto

E guardo con occhi di uccello

La pianura di pioggia chiara

E i laghi di silenzio che hai lasciato.

Ma è più di questa casa a galleggiare

Alla deriva, la città intera sta scendendo

A valle e ognuno si porta dietro, alla fine,

Qualche respiro dell’infanzia e pochi

Spiccioli, cani cani senza guinzaglio

E canarini senza gabbia.

Di libri e stivali pareva

Non si potesse fare a meno,

Ma adesso che non ci sei

I posti solitari dove le cose pulsavano

Sono vuoti e il buio ci s’infila,

Entra nelle tasche dei vestiti e li logora.

Adesso è l’ora degli aironi,

Della luce che cresce nelle anse

Del fiume dove pescavano i vecchi

Di quand’ero bambino.

I desideri della sera cadono

In un punto dove i viaggi vanno

sempre a finire.

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CASE IN AFFITTO

Mi chiesero

“E il fantasma della vecchia l’hai visto?

Qui cadono i libri dagli scaffali…”

La vecchia trovata morta,

Appresi, davanti alla tv.

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Avevamo così poco allora.

Una bandiera sbiadita sbatteva al vento

In una stazione di servizio.

Anni trasparenti, il paese amabile.

Il sole di luglio che penetrava

Un minuto alla volta.

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Qui sono stipate montagne di cenere,

Molti colori, nessuno escluso,

Rauchi di onde e d’aria,

Di campi rugosi sotto le scarpe.

Questi muri di rami intrecciati,

Così forti al tatto,

Hanno visto partire chiunque,

E vagare con l’anima in fiamme,

Tornare la sera a coricarsi,

Accontentarsi del sussurro insonne

Di un abat-jour.

Il suono mesto di quelle stanze

Era l’autunno bagnato

Che ho provato a incidere

Sul legno di queste parole.

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[Stefano Colletti, da Kintsugi – I fogli del libeccio, 2020, Terra d’ulivi edizioni]