Non basta saper scrivere

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Prendiamo questo incipit:

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I libri di memorie, insieme ai piatti per il formaggio e alle brutte ceramiche regalate ogni tanto alle spose, sembrano avere un destino manifesto legato al mare.

[Da “Percy”, di John Cheever, nella raccolta di racconti “Una visione del mondo”, a cura di Julian Barnes, Ed. Feltrinelli]

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Che poi, cosa significa “saper scrivere”?

Uno sa scrivere se sa comunicare, se sa catturare l’attenzione, se sa suscitare curiosità, domande, dubbi; se sa dipingere, se sa commuovere, divertire.

Tecnica, lingua, cultura c’entrano, sì, ma fino a un certo punto, non sono nemmeno condizioni necessarie. Sostengono, fanno stare a galla, in qualche modo producono: entrano nell’impasto, compongono, tessono, amalgamano, arricchiscono. Ma da lì in poi, sopra quel substrato operaio, la struttura, il solido connettivo che avvolge il tutto, serve comunque altro.

Senza, è tutto vano.

Leggendo i racconti di John Cheever, ci si accorge che quel quid nella ricetta della sua scrittura c’è, profuma, spicca, si avverte, colpisce. Come lo chiamiamo? Pensiero laterale, eccentricità, genio (banale)…? O forse visionarietà, leggerezza, ironia…? Di tutto un po’ e ancora non basta. Chissà quante parole sono state spese nel tentativo di dettare la ricetta, di imprigionarlo in una formula, in un’etichetta. Il fatto è che, se l’ingrediente giusto c’è, la pagina diventa subito leggera, traslucida, poi improvvisamente opaca, densa, poi ancora veloce, incalzante, e di nuovo oscura, magari oscena, oppure onirica, caleidoscopica, sospesa, assolutamente priva di coordinate certe; poetica o brutalmente reale, o…

Inutile.

Leggiamo invece la prima pagina di “Percy” per intero:

I libri di memorie, insieme ai piatti per il formaggio e alle brutte ceramiche regalate ogni tanto alle spose, sembrano avere un destino manifesto legato al mare. Le memorie vengono scritte su tavoli come questo, vengono riviste, pubblicate, lette e poi cominciano il loro ineluttabile viaggio verso gli scaffali di quelle case e di quei cottage che si affittano per l’estate. Nell’ultima casa che abbiamo affittato avevamo sul comodino “Memorie di una granduchessa”, “Ricordi di un baleniere yankee”, e un’edizione tascabile di “Addio a tutto questo”, ma è lo stesso in tutto il mondo. L’unico libro nella mia stanza d’albergo a Taormina era “Ricordi di un soldato garibaldino”, e nella mia stanza a Yalta ho trovato “Повесть о жйнй”(*). Il fatto che non interessano a nessuno ha senz’altro una parte in questo defluire verso l’acqua salata, ma dal momento che il mare è il nostro simbolo universale della memoria, non potrebbe esserci qualche misteriosa affinità fra questi ricordi pubblicati e il fragore delle onde? Ho buttato giù ciò che segue, quindi, nella felice convinzione che queste pagine trovino un giorno la loro strada verso uno scaffale con vista su un litorale in burrasca. Mi vedo persino la stanza: vedo il tappeto di paglia, il vetro della finestra appannato dalla salsedine, e sento la casa tremare sotto l’assedio di un mare grosso.

Forse ad alcuni saranno tornate in mente le immagini evocate dal celeberrimo racconto “Il nuotatore“. Ecco, credo che i racconti di Cheever facciano capire al lettore che l’importante non è la trama, ma l’esperienza del viaggio. Egli sa forse da dove parte, ma ignora completamente la destinazione. Ciononostante, si affida di buon grado alla penna visionaria del suo narratore.

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(*) Credo si possa tradurre in “Racconto di una moglie” [ndr]

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Immagine di copertina: Veronica Pellegrini

urbanesimo

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“La semplicità pastorale non può sussistere nelle condizioni odierne. La sua falsa naturalezza è una mistificazione letteraria, un artificiale manierismo, un fenomeno libresco: non nasce dalla campagna, ma dagli scaffali delle biblioteche accademiche. Il linguaggio vivo, nato sul vivo e che corrisponde allo spirito d’oggi, è il linguaggio dell’urbanesimo.

La strada che strepita senza tregua giorno e notte, di là dalle pareti di casa, è strettamente legata all’anima contemporanea, come le prime note di un’ouverture, a sipario ancora abbassato, pieno di mistero e in penombra, ma già acceso dalle luci della ribalta. La città che si muove e rumoreggia incessantemente, senza requie, al di là delle porte e delle finestre è per ciascuno di noi la grandiosa introduzione alla vita. E’ proprio su questa linea che vorrei scrivere della città.

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Nei quaderni di versi lasciati da Zivago non si trovò nessuna poesia di tal genere.”

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[Boris Pàsternak, Il dottor Zivago, Ed. Feltrinelli 1963, Trad. P. Zveteremich, M. Socrate, M. Olsoufieva]

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Foto di Veronica Pellegrini

Varykino

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L’Angelus di Millet, Salvador Dalì – web

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Che felicità lavorare per se stessi e per la famiglia dall’alba al tramonto, costruirsi un tetto, coltivare la terra per nutrirsi, farsi il proprio mondo, come Robinson, imitando il creatore nella creazione dell’universo, e rinnovarsi, rinascere continuamente, allo stesso modo di quando nostra madre ci ha dato alla luce.

Quanti pensieri attraversano la mente, quante cose nuove si pensano quando le mani sono occupate da un lavoro materiale, fisico, da un lavoro rude da manovale o da carpentiere, quando ci si propongono compiti ragionevoli, realizzabili con le mani, compensati dalla gioia del successo, quando per sei ore di seguito si sgrossa un pezzo di legno o si zappa la terra sotto il cielo aperto che vi scotta col suo fiato salutare.

E che questi pensieri, queste intuizioni e riflessioni non si mettano su carta, ma si dimentichino in tutta la loro momentanea fuggevolezza, non costituisce una perdita, ma un vantaggio. Eremita di città, che frusti l’immaginazione e i nervi stanchi con un forte caffè nero o col tabacco, tu ignori l’eccitante più efficace, quello che solo sanno offrire le reali necessità e la buona salute!

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[Boris Pàsternak, Il dottor Zivago, Ed. Feltrinelli 1963, Trad. P. Zveteremich, M. Socrate, M. Olsoufieva]

Primavera

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Primavera, Siberia occidentale – web

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Prima che Jurij Andrèevič uscisse dal suo torpore, la primavera fuse e sciolse tutta la neve che era caduta a Mosca il giorno della loro partenza e che aveva continuato a cadere durante tutto il loro viaggio, e quella che per tre giorni avevano rimosso e spalato a Ust-Nemdà e che giaceva a strati spessi e sconfinati su una superficie di migliaia di verste.

In un primo tempo la neve disgelò all’interno, in silenzio e in segreto. Quando una buona metà di quella immane fatica venne compiuta, non fu più possibile tenerla nascosta. E il prodigio si rivelò. Dalla coltre bianca che si fendeva l’acqua corse fuori e cantò. I fondi, impraticabili antri del bosco trasalirono e fu tutto un risveglio.

L’acqua trovava libero sfogo: si precipitava giù dai burroni, si spandeva in stagni, si riversava dovunque. Presto il bosco si riempì del suo rombo, del suo fumido vapore. Nella foresta i torrenti strisciavano come serpi, si impantanavano e affondavano nella neve che ne legava i movimenti, scorrevano sibilando per i ripiani, precipitavano alzando un pulviscolo d’acqua. La terra ormai non poteva più assorbire umidità. Da altezze vertiginose, quasi dalle nubi, se ne abbeveravano invece con le loro radici gli alberi secolari, ai cui piedi si depositava una schiuma bruna che s’asciugava in tanti cerchi, come la schiuma della birra sulle labbra e sui baffi.

La primavera inebriava il cielo, che ne era stordito e si copriva di nuvole. Sopra la foresta navigavano basse nubi di feltro dai lembi sfilacciati che a momenti si abbattevano in tiepidi acquazzoni con un odore di sudore e di terra, a spazzar via gli ultimi resti della nera, squarciata corazza di ghiaccio.

Jurij Andrèevič si svegliò, si chinò verso lo sportello quadrato del finestrino, da cui era stata tolta l’intelaiatura, e, appoggiato a un gomito, si mise in ascolto.

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[Boris Pàsternak, Il dottor Zivago, Ed. Feltrinelli 1963, Trad. P. Zveteremich, M. Socrate, M. Olsoufieva]

Fine estate

Un giorno una ragazza indossò un vestito bianco
e poi si innamorò di me.
Era molto infelice per questo e non mi è riuscito di consolarla,
che è sempre una cosa difficile.

Un altro giorno, dopo un breve riposino pomeridiano,
aprii gli occhi non ancora del tutto sicuro della mia vita
sentii mia madre che con tono naturale domandava: “Cosa fate?”
Una donna dal giardino rispose: “Faccio merenda nel verde”.
Mi stupii della saldezza con cui gli uomini sanno sopportare la vita.

Un altro giorno mi rallegrai con un dolore inquieto
dell’eccitazione di un giorno che era nuvoloso.

Poi ci fu una settimana confusa,
o due, o ancora di più.
Poi mi innamorai di una donna.
Poi una volta si ballò all’osteria ed io non ci andai.
Poi fui malinconico e molto stupido,
così che inciampai sui sentieri di campagna
che qui sono parecchio ripidi.

Poi una volta lessi questo passo dei diari di Byron: “Da una settimana non esco di casa.
Da tre giorni faccio boxe con il mio maestro di scherma
per quattro ore al giorno, nella biblioteca, con le finestre aperte
per portare pace al mio spirito.”

E poi,
e poi l’estate è giunta al termine
e io trovo che si stia facendo fresco,
che sia tempo di rispondere alle lettere estive,
che la mia penna sia scivolata un poco,
e che, perciò, potrei deporla.

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[liberamente tratto e rielaborato da una lettera di Franz Kafka a Max Brod, Praga 28/08/1904]

Ancora sto qui

Un estratto – con qualche a capo in più – dei Diari di Kafka.

Mi ha colpito molto.

Il sogno, la sensualità, la caduta. Verticale, senza fine.

La modernità di scritti come questo.

Ancora sto qui

nella mia sofferenza

ma già mi viene incontro dietro a me la mostruosa macchina dei miei piani;

la prima piccola piattaforma scivola sotto i miei piedi

ragazze nude

come nei carri di carnevale di terre migliori

mi portano all’indietro su per i gradini

io fluttuo sospeso

visto che le ragazze fanno lo stesso

e sollevo la mano

e ordino la pace.

Cespugli di rose mi stanno accanto

bruciano fiamme di incenso

vengono abbassate corone di alloro

si spargono fiori davanti e sopra di me

due trombettieri, come fossero formati di pietra squadrata

suonano fanfare

piccola gente corre intorno in massa ordinata dietro ai capi

i posti liberi, vuoti, bianchi, tagliati dritti

diventano oscuri, mossi e sovraffollati;

sento i limiti degli sforzi umani e faccio

dalla mia altezza

con sforzo e abilità piombatami improvvisamente addosso

il pezzo di bravura di un uomo serpente ammirato molti anni fa…

E già cinquanta code di diavolo mi spazzano il viso

il terreno diventa molle

affondo con un piede

poi con l’altro

le grida delle ragazze mi inseguono fino in fondo

in cui sprofondo verticalmente

in un pozzo che ha il diametro del mio corpo

ma una profondità senza fine.

[liberamente tratto e rielaborato dai Diari 1910-1923 di Franz Kafka]

L’irreale diventa reale. Un’illusione d’amore.

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E. Schiele, “Abbraccio” – web

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Quando ti si ascolta – interruppe Agathe il fratello con un rimprovero che tradiva la sua partecipazione interiore – allora si dovrebbe pensare che la persona reale non si ama realmente, e la persona irreale, realmente!

Proprio questo ho voluto dire, e qualcosa di simile ho anche sentito da te.

Ma in realtà le due persone sono infine una sola! […] Forse anche la persona reale diventa del tutto reale solo nell’amore? Forse prima non è completa?

[R. Musil, da “L’uomo senza qualità”, romanzo incompiuto]

Musil e la “romantica” ricerca di una soluzione all’eterno dilemma esistenziale, rappresentata nell’amore “impossibile” fra fratello e sorella (Ulrich e Agathe nel romanzo).

Essa ti ama sempre

A me piace far rivoltare gli scrittori nella tomba. Per sicurezza, me la prendo con i morti. Oggi tocca ad Ernest. Il suscettibile, l’irascibile Ernest (me lo immagino così). E’ suo il brano che, facendo di virgole a capo, trasformo da prosa in poesia. Per gusto mio, perfettamente consapevole di travisare e bestemmiare entrambe. P.

Ora, a guardare dal corridoio fra gli alberi al di sopra del valloncello

il cielo percorso da nubi bianche spinte dal vento

amato tanto questo paese da sentirmi felice

come ci si sente quando si è stati con una donna che si ama veramente

quando, svuotati, lo si avverte che rinasce e gonfia su di nuovo

è lì e non si potrà avere del tutto

ma pure quel che c’è ora si può avere

e se ne vuole sempre di più

per averlo ed essere e viverci dentro

per possederlo ora e di nuovo

e per sempre

per questo lungo e così rapidamente terminato “sempre”:

e il tempo diviene immobile

tanto immobile talvolta che, dopo

ci attendiamo di sentirlo a muoversi

ed è così lento a ripartire.

Ma non si è soli

perché se hai amato davvero con felicità e senza tragedie

essa ti ama sempre.

[Ernest Hemingway, da Colline Verdi d’Africa, a cura di Fernanda Pivano, ed. Mondadori]

La morte non riguarda noi

La resurrezione. Nella forma più volgare in cui se ne parla, a consolazione dei deboli, mi è estranea. E anche le parole di Cristo sui vivi e sui morti io le ho intese sempre in altro modo. Dove mettereste questi immensi eserciti arruolati in tutti i millenni? Non basterebbe l’universo, e la divinità, il bene e il raziocinio dovrebbero cedere il posto. In quell’avida calca animalesca sarebbero schiacciati.

Ma, nel tempo, sempre la medesima vita, incommensurabilmente identica, riempie l’universo, a ogni ora si rinnova in innumerevoli combinazioni e trasformazioni. Ecco, voi vi preoccupate se risorgerete o meno, mentre siete già risorta, senza accorgervene, quando siete nata.

Sentirete dolore? Sente forse il tessuto la propria dissoluzione? Cioè, in altre parole, che sarà della vostra coscienza? Ma che cos’è la coscienza? Vediamo. Desiderare coscientemente di dormire è insonnia garantita, tentare coscientemente di avvertire il lavorio della propria digestione è esattamente voler perturbare la sua innervazione. La coscienza è un veleno, un mezzo di autoavvelenamento per il soggetto che la applica su se stesso. La coscienza è luce, proiettata al di fuori e che illumina la strada davanti a noi, perché non si inciampi. La coscienza sono i fari accesi davanti a una locomotiva che corre. Rivolgete la loro luce all’interno e succederà una catastrofe.

Dunque, che sarà della vostra coscienza? Della vostra. La vostra. Ma voi, che cosa siete? Qui sta il punto. Guardiamo meglio. In che modo avete memoria di voi stessa, di quale parte del vostro organismo siete cosciente? Dei vostri reni, del fegato, dei vasi sanguigni? No, per quanto ricordiate, di voi vi siete sempre accorta in una estrinsecazione, in un atto, nelle opere delle vostre mani, in famiglia, fra gli altri. E, ora, state bene attenta. L’uomo negli altri uomini, ecco che cos’è l’anima dell’uomo. Ecco che cosa siete voi, ecco di che cosa ha respirato, si è nutrita, si è abbeverata per tutta la vita la vostra coscienza. Della vostra anima, della vostra immortalità, della vostra vita negli altri. E allora? Negli altri siete vissuta, negli altri resterete. Che differenza fa per voi se poi ciò si chiamerà memoria? Sarete ancora voi, entrata a far parte del futuro.

Un’ultima cosa. Non c’è nulla di cui preoccuparsi. La morte non esiste. La morte non riguarda noi.

(discorso del giovane dottor Jurij Aleksàndrovic Zivago ad Anna Ivànovna, gravemente malata)

[Boris Pàsternak, Il dottor Zivago, Ed. Feltrinelli 1963, Trad. P. Zveteremich, M. Socrate, M. Olsoufieva]

La mia anima ha fretta

Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo da vivere da ora in avanti, rispetto a quanto ho vissuto finora…

Mi sento come quel bimbo cui regalano un pacchetto di dolci: i primi li mangia con piacere, ma quando si accorge che gliene rimangono pochi, comincia a gustarli intensamente.

Non ho più tempo per riunioni interminabili, in cui si discutono statuti, leggi, procedimenti e regolamenti interni, sapendo che alla fine non si concluderà nulla.

Non ho più tempo per sopportare persone assurde che, oltre che per l’età anagrafica, non sono cresciute per nessun altro aspetto.

Non ho più tempo, da perdere per sciocchezze.

Non voglio partecipare a riunioni in cui sfilano solo “Ego” gonfiati.

Ora non sopporto i manipolatori, gli arrivisti, né gli approfittatori.

Mi disturbano gli invidiosi, che cercano di discreditare i più capaci, per appropriarsi del loro talento e dei loro risultati.

Detesto, se ne sono testimone, gli effetti che genera la lotta per un incarico importante. Le persone non discutono sui contenuti, ma solo sui titoli…

Ho poco tempo per discutere di beni materiali o posizioni sociali. Amo l’essenziale, perché la mia anima ora ha fretta…

Non ho più molti dolci nel pacchetto…

Adesso, così solo, voglio vivere tra gli esseri umani, molto sensibili.

Gente che sappia amare e burlarsi dell’ingenuo e dei suoi errori.

Gente molto sicura di se stessa, che non si vanti dei suoi lussi e delle sue ricchezze.

Gente che non si consideri eletta anzitempo.

Gente che non sfugga alle sue responsabilità.

Gente molto sincera che difenda la dignità umana.

Con gente che desideri solo vivere con onestà e rettitudine.

Perché solo l’essenziale è ciò che fa sì che la vita valga la pena viverla.

Voglio circondarmi di gente che sappia arrivare al cuore delle altre persone…

Gente cui i duri colpi della vita, abbiano insegnato a crescere con dolci carezze nell’anima.

Sí… ho fretta… per vivere con l’intensità che niente più che la maturità ci può dare.

Non intendo sprecare neanche un solo dolce di quelli che ora mi restano nel pacchetto.

Sono sicuro che saranno squisiti, molto di più di quelli che ho mangiato finora.

Il mio obiettivo, alla fine, è andar via soddisfatto e in pace con i miei cari e con la mia coscienza.

Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo una.

[Mario De Andrade]