Un romanzo russo, e una domanda

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Il fatto che sia qui a scriverne è, di per sé, il miglior complimento.

Quando un lettore anonimo e qualsiasi, come il sottoscritto, sente il bisogno di commentare il libro che ha appena finito di leggere, vuol dire che esso ha ottenuto uno dei principali obiettivi per cui è stato scritto, se non l’unico, ovvero toccare, smuovere, far riflettere, far incazzare, disturbare, infastidire, insomma suscitare emozioni, le più disparate, ma pur sempre emozioni.

Un romanzo russo, ed. Adelphi, trad. L. Di Lella e M. L. Vanorio, è il mio secondo libro di Carrère. L’altro, il primo, è il più recente Yoga.

Su quest’ultimo riporto il commento a caldo espresso da un’amica (medico anestesista, lettrice vorace, in passato attrice teatrale, attualmente aspirante scrittrice – che cazzo significhi non saprei dirlo): “Hai letto Yoga?”, mi chiede. Annuisco, mi pareva di averglielo consigliato. “Mi ha fatto cagare [testuali parole, ndr]“. Di fronte ad una “critica” determinata, irruente e, direi, lapidaria come questa, per di più nei confronti di un libro che penso di aver goduto, di norma prendo il fiato, riavvolgo qualche pensiero o suggestione in merito all’opera in oggetto, e inizio con un: “Mah…”.

Lei mi interrompe prima che io riesca a formulare la mia prima diplomatica considerazione. “Fa proprio cagare.” Ci pensa un attimo, guarda di lato con un guizzo che sa di attenuante, poi aggiunge: “Cioè. Si vede proprio che ha sbroccato, di brutto, si vede che gli hanno fatto l’elettroshock…”.

Alzo le mani, gonfio i polmoni – sai si va sul clinico-psichiatrico, non è il mio terreno, sto per emettere il mio secondo mah!, ma cause di forza maggiore (se non ricordo male un aereo in partenza) interrompono sul nascere l’approfondimento tecnico-letterario che stava per aver inizio.

Perché cito un commento (o forse un giudizio?) su di un altro libro dello stesso autore? Solo per dire che, anche se non sono uno psicologo, né uno psichiatra (mi si perdoni), mi sembra che una buona parte degli elementi di confusione, disorientamento e follia, se vogliamo, che popolano le pagine di Yoga (2021), siano già ben manifesti in Un romanzo russo (2007). Al netto dell’attacco a Charlie Hebdo (evento in cui, fra le altre persone, perse la vita un caro amico dell’autore, o meglio il compagno, letterato, di una sua cara amica) e tante altre cose e vicissitudini intercorse nei successivi 14 anni di vita di Carrère.

Difficilmente non finisco un libro. Forse mai. Nemmeno in questo caso, anche se più volte ho pensato di farlo. Perché non lo inquadravo. Non ho una conoscenza dell’opera di Emmanuel Carrère tale da poter affermare che la sua poetica si basi sostanzialmente sulla trascrizione dei suoi diari, ma se dovessi tirare le somme sui due libri letti finora, beh, direi che è proprio così, al netto di tutte le diatribe, da lui stesso citate, sul fatto che sulle pagine dei suoi memoire prima, e dei suoi libri poi, finiscano la verità, il reale, piuttosto che una versione romanzata degli stessi (mi risulta abbia dovuto affrontare qualche questione legale a tal proposito e – detto fra noi – come potrebbe andare diversamente, quando uno fa leggere i cazzi suoi a milioni di persone, incluse – come è ovvio, ahimè – quelle che vi hanno preso parte attivamente?). Non vorrei essere nei panni delle sue ex. Che poi abbiamo un bel dire: ah! l’immortalità (non esageriamo), ah! la bravura, l’equilibrio, l’onestà,… (una visione più consapevolmente egocentrica non penso esista), ma sì, dai, in fondo ne sei uscita a testa alta… Altro che citazione, è già buono se il buon Carrère abbia ancora tutte le ossa al loro posto.

Stavo abbandonando Un romanzo russo perché non è un romanzo, o non corrisponde alla mia idea di romanzo. Ho capito dopo – almeno credo – che il titolo del libro contenga una sorta di rimando o provocazione. Un romanzo russo è il diario di uno scrittore che vorrebbe scrivere un romanzo su suo nonno (georgiano), ma non riesce o non può o gli è vietato farlo.

Tentativo di sinossi.

Carrère, il protagonista, si affeziona e vuole narrare la storia di un uomo ungherese, internato in Siberia, che ha passato 50 anni in Russia, senza parlare il russo, rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Il progetto di romanzo evolve in quello di un film documentario, mentre si fa strada prepotentemente il desiderio di imparare o migliorare il russo (lingua già nota a Carrère per motivi familiari) e scrivere in realtà la controversa e misteriosa storia del proprio nonno, scomparso al termine della seconda guerra mondiale e adombrato dalla pesante, scomoda accusa di essere stato un collaborazionista degli invasori tedeschi. Il docfilm stenta però a decollare e Carrère non se ne cura più di tanto, si annoia, si demoralizza, si scazza; anche il libro sul nonno rimane un desiderata che assume sempre più una non ben definita valenza psicoterapeutica; il russo migliora e regerdisce in base agli stati d’animo [capisco benissimo – ho lo stesso rapporto emotivo con le lingue straniere: parlo bene solo da ubriaco…, ndr]; sicché i pensieri di Carrère si affollano sulla propria relazione con Sophie, la fidanzata lower class, che riesce comunque ad “amare” (di certo a scopare), che viene “immortalata” caleidoscopicamente in un racconto nel racconto (una chicca erotica davvero geniale, cui l’autore dedica almeno una metà del libro) e, quindi, nel racconto del racconto del racconto, un inserto di 35 mila battute, allegato a Le Monde, letto, commentato, recensito e ri-raccontato, ma – ironia della sorte – mai nemmeno aperto dalla diretta interessata e unica vera destinataria, alla faccia dei 600 mila lettori di Le monde – del “Monde” per le traduttrici, delle tante donne che vi si sono appassionate, identificate, sgrillettate, e di Philippe, l’amante forse solo di fantasia, che gli risponde a tono… E nel diario-romanzo-romanzato della tragica e sconcertante fine della succitata relazione.

Un romanzo russo. “Mah…”.

Non sono un letterato. Sono un povero ingegnere, e anche lì non è che me la cavi benissimo. Non so nemmeno cosa sia la letteratura. Ne ho un’idea, ma faccio sempre più fatica a definirla.

Scrivo, perché ogni tanto scrivo, e lo faccio prima di tutto per me (qui in questo blog o sulla pagina stampata), con una commisurata (e indispensabile) dose di narcisismo (tanto) e dedizione (poca). Fra le altre cose, metto in pubblico qualcosa di mio, per lo più racconti, auto-referenziati al 99,9%, ma nel farlo non ho mai creduto di fare letteratura (sia mai!).

Narcisismo. Non può essere tutto lì, mi dico. Ma leggendo Carrère il dubbio mi attanaglia.

Carrère ha un grande talento. Scrive da dio. Fa divorare le sue pagine. Fluide, libere e al contempo pesate, bilanciate, espressivamente perfette. Racconta senza struttura, confonde, disorienta, conduce il lettore nel labirinto della sua testa, davvero complessa e problematica, ma anche estremamente lucida e dotata di una logica ineccepibile (sfido chiunque ad argomentare con la Sophie di cui sopra come ha fatto lui, in modo estenuante, per ore, giorni, settimane, prima del tracollo definitivo). La sua scrittura appare priva di schemi e di riferimenti, eppure conduce, trasporta il lettore con decisione. Carrère fa sì che con le sue pagine il lettore divori i fattacci suoi come se fosse la cosa più naturale del mondo e senza la minima intenzione di far credere che stia accadendo qualcosa di diverso da questo. Anzi, con l’intento più o meno dichiarato ed evidente di curarsi, di porre rimedio al proprio disagio. Scrivere un romanzo su suo nonno o su Sophie per Carrère è terapia, catarsi, liberazione.

Mi risulta che Emmanuel Carrère sia uno dei principali autori della letteratura francese contemporanea.

Con una “commisurata” dose di narcisismo (al limite della sopportazione) e dedizione (posso solo immaginare) e talento (innegabile).

Allora la domanda è: che cosa è la letteratura?