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Un raccontino per chiudere l’anno.
Giriamo pagina, diciamo.
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Che il prossimo sia per tutti un anno migliore!
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La villa guardava il lago. Con il suo vasto ventaglio di scale quasi vi si immergeva. Per questo era stata concepita, perché da lì la si ammirasse, da lì la si raggiungesse. Prima che venisse chiuso da un muretto in pietra e trasformato in uno stagno, il “villino per scapolo”, come fu definito all’origine dal suo ideatore, poteva contare su un proprio approdo privato.
Eretta su un promontorio naturale orientato ad est, il fronte principale della casa, suddiviso sapientemente su più sale, traguardava l’asse meridionale del lago, contemplando le ripide quinte boscose delle montagne che dalla riva opposta vi si tuffavano. Il fronte minore, sul retro, cui si giungeva percorrendo il viale attraverso il parco secolare, era ben più spartano, la facciata un colpo secco di scure, verticale, senza fregi, né bovindi o porticati.
Louis arrivò che era già buio, una domenica di febbraio, nel tardo pomeriggio. Fermatosi davanti al cancello chiuso, i fari illuminarono i suoi sorprendenti intrecci di nastri in ferro battuto. Rivide la testa incanutita di Gustavo, maggiordomo tuttofare, china sul blocco della serratura, scolpito a forma di mosca. L’unico abitante superstite, tutt’uno con la villa, della quale custodiva la memoria. Ma questo succedeva tre mesi prima, a fine novembre, alla morte della proprietaria. Da allora Louis non aveva più messo piede alla residenza del lago. Né ci sarebbe stato più motivo di farlo.
Attese qualche istante: Gustavo aveva passato gli ottanta, aveva i suoi tempi. Dalle finestre della sua dépendance controllava il varco d’ingresso, non era necessario suonare, l’aveva sicuramente già visto. E poi lo stava aspettando.
Madama Antonia era morta inaspettatamente. Louis ricordava nitidamente la sorpresa e lo sgomento che lo colsero nell’apprendere la notizia; l’aveva vista poco tempo prima, sembrava in ottima salute. Elegante e impeccabile, come sempre, il viso la solita maschera austera, che s’incrinava improvvisamente in sardonici sorrisi e battute salaci, che avevano il pregio di farla apparire meno snob. Una donna forte, coriacea, come Louis soleva definire l’anziana nipote dell’omonimo patriarca, l’ingegnere, che più di ogni altro abitante aveva lasciato il proprio segno nel luogo in cui viveva, consegnandogli fra le altre cose, opere di pregio, addirittura monumentali, non ultima la villa al lago, che da sempre portava il suo nome. Louis stesso era un lontano parente, discendente di un ramo della famiglia stabilitosi in Francia dopo la grande guerra, oltre che un consulente legale della defunta.
Strano, deve aver avuto qualche cosa da sbrigare, pensò, scendendo dall’auto. Si avvicinò al citofono, ma senza suonare: il cancello era socchiuso. Provò a spingerlo e con un breve sussulto il battente arretrò, basculando silenziosamente sui perni. Louis percorse il viale fino al portico della dépendance. Dall’interno non udì provenire alcun rumore. Attraverso la vetrata poteva vedere un’ampia cucina americana illuminata che dava su un soggiorno immerso nella fievole luce di un paio di lampade a stelo. Era una casa spaziosa, moderna e ben accessoriata. Una sistemazione invidiabile, eccessiva per un uomo solo.
Louis vi era entrato solo un paio di volte, per lo più incontrava Gustavo in villa o nel parco, magari mentre soprintendeva ai preparativi di qualche ricevimento all’aperto, o all’allestimento dello stage di un concerto. La villa e il parco avevano anche fatto da sfondo a qualche set cinematografico, uno dei quali datava un preciso ricordo dell’infanzia di Louis. Negli ultimi tempi, da quando la signora Antonia, che non aveva figli, si era ritirata a vivere in poche stanze, in un cottage ben più piccolo di quello del custode, la tenuta era stata aperta al pubblico.
Louis bussò un paio di volte sulla vetrata, senza risultato. Per tutta risposta, invece, si levò un’intensa ma breve folata di vento, di quelle tipiche del lago, tanto note ai velisti, in grado d’estate di sovvertire il clima nel giro di pochi minuti. Si strinse nella giacca di velluto, rimpiangendo per un momento il soprabito che aveva lasciato in macchina, ma senza risolversi ad andare a recuperarlo.
Oltre il colonnato, in un box con la saracinesca a tre quarti, il muso di una vecchia Jaguar sporgeva sornione da sotto un telo. Louis estrasse il porta sigarette d’argento e se ne accese una, scrutando nel buio la linea spezzata del tetto della residenza padronale, sommersa dalle chiome dei deodara. Da lì non poteva distinguere se ci fosse almeno una finestra illuminata. Decise di andare a vedere.
Mentre scendeva lungo il viale, ripensò ancora una volta alla strana telefonata di quella mattina e alle parole che Gustavo, con il suo irriducibile accento veneto, gli aveva rivolto. Era stato lui a chiamare, non saranno state le otto, fatto curioso già di per sé. Ne era seguita una conversazione breve, di quelle a senso unico, senza diritto di replica. Se non fosse stato così presto, avrebbe detto che aveva bevuto.
– Buongiorno dottore, sono il Gustavo della villa. Mi scusi, ze presto, lo so.
– Salve Gustavo, non si preoccupi, nessun disturbo, sono appena arrivato in studio. Mi dica…
– Non è che la g’avrebbe tempo di passare a trovarmi?
– Quando?
– Oggi.
– Oggi? – Ribatté Louis sorpreso. – Non credo sia possibile, Gustavo. Sono a Milano tutto il giorno, mi risulta veramente…
– Sarebbe davvero gentile da parte sua, dottor Louis, sa? – Lo interruppe il maggiordomo.
– E’ successo qualcosa?
– No, no, dottore, no ze successo nulla, dizemo. Ma…
– Ma… Cosa, Gustavo?
– Ze un po’ di tempo che go questo pensiero…
– Pensiero?
– Sì, nulla di grave, sia chiaro, ma non riesco a fare a meno di pensarci, capisce?
– Francamente no, Gustavo. Di cosa stiamo parlando? Non faccia il misterioso. Se le serve un aiuto da parte mia, è bene che sappia da subito di cosa si tratta.
– Ze meglio se de ‘sta cosa ne parliamo di persona, dottor Manzoni, – rispose Gustavo, serio.
Louis si irrigidì. Quel cambio di registro non prometteva nulla di buono. In tanti anni fra lui e Gustavo non si era mai instaurato un rapporto di confidenza. Non sapeva nemmeno da dove provenisse. Eppure lo conosceva da quando era bambino e d’estate gli capitava di passare qualche pomeriggio alla villa sul lago. Per tutti Gustavo era il Gustavo della villa o il Veneto, non aveva un cognome. Era un’istituzione, una cosa sola con la casa dove serviva da più di cinquant’anni e la famiglia che nel tempo l’aveva abitata. Forse più di ogni altro conosceva la loro storia, i loro segreti.
– Vede, signor Gustavo… – Louis s’interruppe. In fondo glielo doveva.
– Mi faccia controllare…, – scorse rapidamente l’agenda. – D’accordo, signor Gustavo, – disse. – Alle diciassette sono da lei.
Un contrattempo con un cliente nel pomeriggio, però, lo fece tardare di quasi un’ora. Motivo per il quale, Gustavo doveva essersi trovato qualcos’altro da fare.
Louis raggiunse il retro della villa. Stando attento a dove metteva i piedi, salì i pochi scalini che lo separavano dalla porta d’ingresso e, guadagnato il pianerottolo, guardò attraverso i riquadri di vetro piombato. Non vide nulla, ma ricordò che alla morte di Antonia la camera ardente era stata allestita appena al di là di quella soglia, nell’atrio antistante lo scalone, in un locale disadorno, di passaggio, di cui ora nel buio riusciva a malapena a intravedere le pareti attraverso la lente deformante della vetrata.
La pianta di quella casa era stata disegnata senza sprecare spazio, nemmeno un corridoio, ma un articolato susseguirsi di ambienti che godessero il più possibile della vista del lago; stanze e saloni disabitati al momento della morte della padrona di casa, ai quali il feretro non poté più accedere.
Louis ripensò al momento della sua visita alla defunta. Al freddo di quella sala spoglia, alle parole frammentate di Gustavo, ben più di un fedele maggiordomo, uomo fidato, intimo di famiglia, vero e proprio amico, che stava in piedi dietro la testa della salma, fissandola, le mani poggiate sui bordi della bara aperta, quasi volesse carezzare i capelli della defunta, chinarsi su di lei e sussurrarle qualcosa all’orecchio. Impacciato, Louis non sapeva cosa dire; attese qualche minuto in silenzio e poi fece per andare, ma Gustavo lo trattenne, con uno dei suoi affabili sorrisi, riesumato in un attimo, lo prese per un braccio dicendo: – Andiamo di là?
Louis lo seguì in un salottino interamente rivestito in legno, il pavimento coperto da tappeti orientali. Il custode lo precedette verso un mobile bar che conosceva bene, dal quale estrasse una caraffa di cristallo: – Goccetto? – Disse, sollevando due bicchieri.
Parlarono di Antonia, della mancanza di un erede, della fine di una stirpe. Del patrimonio di famiglia spartito fra i tanti eredi trasversali, volti sconosciuti, sparsi nel mondo. La villa sarebbe stata amministrata da un imprenditore romano. Gustavo crollò il capo rassegnato, ma l’attimo dopo sorrideva di nuovo con i suoi bei denti sotto i baffi sottili: – La vita…, ripeté.
Perché l’aveva chiamato? Perché proprio lui? Louis non aveva curato il testamento dell’anziana signora, non ne sapeva nulla. Le sue ultime mansioni risalivano ad una consulenza per la cessione di un ramo dell’azienda di famiglia, poi più nulla per anni. Incontrava Antonia in qualche occasione mondana, o a teatro, nel periodo che passava in città. Louis non era mai stato intimo, ma soprattutto era un uomo riservato ed era sempre rimasto al suo posto. Forse era proprio questo che Gustavo si era rivolto a lui.
Il rumore di un’anta che sbatte lo sottrasse ai propri pensieri. Allarmato, circumnavigò in fretta la villa raggiungendo il fronte lago. In una delle sale la luce era accesa, la finestra spalancata. Scavalcò una ringhiera e si trovò ai piedi della scalinata, in cima alla quale dovette arrampicarsi su un balconcino. Entrato infine nella stanza, non vide nessuno. Tutto era in ordine e ben illuminato, nessun segno d’effrazione, né di vita. Di Gustavo nessuna traccia.
Tornò sul balcone. Il lago era un immobile schermo liquido tenebroso. Dall’alto la scalinata, che si diramava in più rampe come il getto scomposto di una cascata, era ancora più bella. Dove la pietra serena, più chiara, s’immergeva nel cupo del lago, Louis scorse una macchia nera. Sentì di averlo sempre saputo, da quando aveva trovato il cancello aperto, da prima ancora, da quella telefonata.
Gustavo galleggiava a mezzo metro dalla scalinata, con una mano sembrava stringere uno dei pali per l’ormeggio, forse per impedire di essere trascinato via, come se avesse voluto rimanere lì, davanti alla villa.
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[P.B., 30/12/2020]
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Corre l’obbligo di dichiarare che quanto qui narrato, pur ispirandosi a fatti “realmente accaduti”, è esclusivamente frutto dell’immaginazione dell’autore.
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Immagine di copertina tratta dal web