[Ultima parte; torna alle precedenti]
4.
“Complimenti Di Biasi, questo è un giorno importante per il nostro studio e indubbiamente lo è anche per lei!”, un solco più profondo degli altri sul volto dell’avvocato Consonni riproduce quello che dovrebbe essere un sorriso.
A due mesi di distanza dall’incontro con gli uomini della moda Luca raccoglie i frutti del proprio lavoro. Assiduo, pressante, infaticabile, pur di raggiungere il proprio obiettivo ha lavorato a lungo senza interruzione e adesso pare sia finalmente arrivato il momento di incassare.
Parla pure, pensa, mentre l’anziano avvocato si esibisce in un breve panegirico. Sono io che gli sono stato addosso tutta estate, io che non gli ho dato tregua, che li ho corteggiati, coccolati, che li ho pure portati una settimana in barca, con le mogli per giunta. Voi non avete fatto un cazzo. Questa partita è mia, solo mia, di nessun altro.
Luca risponde alla smorfia del titolare con un ipocrita cenno di deferenza minimizzando, quasi, l’entità della propria impresa. In realtà, il pezzo di carta stretto fra le dita ossute del vecchio vale molto più di qualsiasi altro contratto prodotto negli ultimi cinque anni, lo sa bene. Quel contratto l’ha redatto lui, è opera sua, senza di lui non sarebbe mai stato scritto né firmato. Ma Luca sa che non è ancora il momento di chiedere il conto. Deve pazientare ancora un poco, verrà presto il giorno in cui sarà lui a dettare le condizioni del gioco, non manca molto.
“E ci sono altri interessanti sviluppi all’orizzonte”, continua il vecchio. “Stasera Di Biasi verrà a cena a casa mia. Ci saranno anche i soci. Festeggeremo la chiusura dell’accordo e parleremo del futuro. Ricordo con piacere il giorno in cui mise piede in questo ufficio per la prima volta: capimmo subito che lei era un cavallo di razza, un vincente. E oggi siamo più che felici di aver puntato su di lei”, conclude con una nota stridula nella voce. I due si stringono sentitamente la mano. Incredulo, Luca si chiede da dove origini la forza dell’artiglio del vecchio.
Mentre torna nel suo ufficio, i sui colleghi si mostrano immersi nelle proprie occupazioni col chiaro intento di negargli anche solo la soddisfazione di uno sguardo di curiosità. Rodetevi pure d’invidia, passacarte che non siete altro, pensa Luca sprezzante. Sa perfettamente di non aver nessuno con cui condividere quel momento di gloria, né sente in fondo l’esigenza di farlo. E’ convinto che nessuno lo stimi veramente, tanto meno i colleghi sempre pronti a screditarlo, parassiti in attesa del suo primo passo falso, occasione che lui si guarda bene dal concedergli. Ormai si è abituato al clima d’ostilità che lo circonda all’interno dello studio: cresce di pari passo con la sua stessa affermazione. Buon segno, buon segno, ripete spesso alzando le spalle.
Sulla porta del suo ufficio incontra Nadia.
“Ti ho lasciato sulla scrivania i documenti che mi avevi chiesto”, dice lei frettolosamente, oltrepassandolo. Poi si volta di scatto e aggiunge: “Soddisfatto?”
La sua voce è aspra, aggressiva, un’onda di livore trattenuta a stento.
Luca decide di non affrontarla.
“Ti sei scopato la moglie di qualcuno, prima di chiudere la trattativa?”, lo incalza Nadia. “E, dimmi, com’è andata, sei stato all’altezza?”
Luca non risponde, né si ritrae. Con una mano sulla maniglia della porta, attende la prossima stoccata fissandola con un sorriso compiaciuto. In fondo ha sempre apprezzato quel genere di sarcasmo.
“Ma che ti parlo a fare?”, sibila lei. “Tanto tu te ne freghi di quello che pensano o provano gli altri. Così come te ne freghi delle conseguenze di ciò che fai a chi ti sta accanto”.
Luca tace, si chiede se qualcuno li stia ascoltando.
“Lo sai, vero?”, gli chiede ancora Nadia. “Lo sai che resterai solo come un cane?”, poi si volta e si allontana senza attendere risposta.
Quel pomeriggio Luca torna a casa prima del solito, vuole essere fresco e riposato per la sua cena di lavoro. In sella alla moto, osserva con curiosità la città in un normale pomeriggio feriale, una quotidianità tutto sommato a lui sconosciuta. I viali alberati e l’aria di quella giornata di fine estate gli infondono il buon umore, predisponendolo al meglio. Ci sta anche una corsetta nel parco prima di uscire, si dice. Pur non essendo il giorno canonico, decide di passare da sua madre per un saluto, una specie di sorpresa. Le porterà un mazzo di fiori.
Giunto all’ultimo semaforo, scatta il rosso e si ferma. L’attimo dopo si accorge che manca qualcosa, anzi qualcuno. Il vagabondo dell’incrocio non è al solito posto, il tratto di marciapiede da lui normalmente occupato è deserto. Impossibile non notarne l’assenza: senza di lui il marciapiede, l’incrocio, persino i passanti non sembrano gli stessi.
Strano, pensa Luca, deve essersi allontanato. Si guarda intorno in cerca dell’accattone, ma non lo vede.
Non c’è, scomparso. Che abbia cambiato posto?, si chiede. Magari ne ha trovato uno più accogliente. Impossibile, si dice: quello straccione è destinato a diventare parte integrante di quel pezzo di marciapiede, starebbe lì finché campa.
E se gli fosse successo qualcosa, un incidente? Magari si è ammalato. No, riflette Luca, più probabilmente si sarà trattenuto nel posto dove passa la notte. Ma nessuna di quelle ipotesi lo convince veramente.
Poco più tardi, mentre sta correndo nel parco, quell’anomalia gli torna di nuovo in mente, frapponendosi curiosamente fra il ritmo dei suoi passi e la musica nelle cuffie. Domani mattina sarà ancora là, si dice, scacciando il pensiero con un vago senso di imbarazzo.
Il mattino seguente, però, lo straccione non è ancora tornato al suo posto. La conferma di quell’assenza è spiazzante. Tanto che la sera stessa, a cena, Luca interrompe sua madre nel bel mezzo della conversazione per chiederle di lui. “Che fine avrà fatto? Dove sarà andato a finire?”
Ma nemmeno lei è in grado di mettere a tacere la fastidiosa spia che si è accesa nella sua testa.
Il barbone non riappare nemmeno il giorno dopo, né quello dopo ancora.
Da quel momento, ogni volta che si avvicina all’incrocio Luca non fa altro che guardarsi intorno e chiedersi che fine possa avere fatto. Tornerà, tornerà sicuramente, si dice.
Non sarà mica morto?…
Quella domenica Luca si sveglia in preda a una strana agitazione e poco dopo sente un impellente bisogno di uscire di casa. Con la scusa di comprare le sigarette decide di fare due passi intorno all’isolato.
Una volta varcato il portone d’ingresso, si accorge che sta piovendo. Ma è una pioggia sottile che scende senza far rumore e decide di avviarsi lo stesso, lasciando che quelle poche gocce gli inumidiscano il volto e i capelli.
Giunto all’incrocio, si ferma proprio nel punto in cui mesi prima aveva assistito all’incontro fra il clochard e l’elegante signora. Con sua grande sorpresa s’accorge che la donna è di nuovo là, nello stesso identico punto, ferma con un ombrello aperto in mano. La scena tuttavia è monca, il vagabondo non c’è.
Quando la donna solleva lo sguardo, Luca riesce a intravedere un’espressione triste nei suoi occhi, ma ogni suo gesto appare particolarmente lento e sconsolato. Prima di incamminarsi, poi, con la mano compie un movimento meccanico all’altezza del petto. Un segno di croce, esclama Luca. E’ morto, dunque. Morto, certo, il barbone è morto. In fondo l’ha sempre saputo, ma ora ne ha la conferma: il fetido straccione è morto e non tornerà mai più al suo posto.
Luca trae un sospiro di sollievo. Ma in quello stesso istante è come se qualcosa dentro di lui si rompesse e cedesse di schianto. Non era solo, sussurra, ed è come se le parole uscissero da sole dalla sua bocca.
Rimane immobile sul marciapiede. La signora in abito grigio ha già svoltato l’angolo, ma lui non riesce ancora a muoversi, né sa da che parte andare. Vorrebbe attraversare l’incrocio, raggiungere il solito bar, ma a un tratto capisce di non avere la forza di farlo. Il semaforo da rosso diventa verde, poi di nuovo rosso. La pioggia continua a scendere leggera, avvolgendolo in quella sua umida carezza. Sottili rivoli d’acqua cominciano a solcargli il volto.
Lentamente, infine, Luca riprende a camminare. Avanza sul marciapiede, senza attraversare. Non sa dove stia andando, ma sente il bisogno di continuare a sentire quell’acqua cadere delicatamente sopra la sua testa. Non sarà mai abbastanza, pensa, vagando senza meta.
[P.B., 6/11/2017]