Cosa ne sarà di noi?

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Levata dal richiamo di brina notturna,

affronto l’alba.

Mi affaccio al desiderio di gelo nelle narici.

Prossima a visioni di pace,

inciampo nella disumana incuranza

di croste rammollite e bicchieri sul marciapiede.

Cosa ne sarà di noi?

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[I.P., 17/01/2024]

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Immagine: Silvia Giusti

Parigi non esiste

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A Andrea, a Stefano.
A noi, alle nostre esistenze,
cui questo racconto è liberamente ispirato.

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Quando suonai, sulla porta apparve un ragazzo alto in pigiama, che rimase a fissarmi in silenzio.

Ciao, io sono Paolo. Tu devi essere Guy, dissi in italiano, Andrea mi aveva detto che lo parlava bene.

No, sono Alberto, rispose lui, facendomi segno di entrare.

Mi precedette in un angusto soggiorno in penombra. Ebbi il dubbio di aver sbagliato indirizzo, ma le indicazioni di Andrea erano chiare: rue Saint Jacques, 122, scala B, secondo piano – suonare Rancourt.

Ci sedemmo a un tavolo rotondo, ingombro di piatti, bicchieri sporchi e lattine di birra vuote.

Guy è uscito presto stamattina, disse Alberto, levando di mezzo un cartone con un avanzo di pizza. È andato all’ufficio di collocamento, aggiunse. Non ho idea a che ora rientri.

Sopra il pigiama indossava una giacca da camera a scacchi che insieme all’aspetto allampanato e il timbro nasale della voce gli conferiva un’aria decisamente dandy.

Come mai a Parigi? chiese.

Dissi che ero un amico di Andrea.

Ah, Andrea, annuì, dando segno di averlo sentito nominare. Non è a Parigi in questi giorni,… Lo sapevi vero? aggiunse con un filo d’apprensione.

Spiegai che ne ero al corrente, ma che non avendo più occasione di venire a Parigi nei mesi a venire, avevo deciso di partire ugualmente.

Andrea era tornato in Italia per sbrigare le pratiche per l’esenzione dal servizio militare. Pur non avendo un impiego fisso al momento, era iscritto all’ufficio di collocamento francese e percepiva da mesi il sussidio di disoccupazione: quanto bastava per essere considerato un lavoratore all’estero. A me invece la cartolina di precetto era arrivata: come da copione, puntuale come una sentenza, a due settimane dalla scadenza dei termini, giusto in tempo per soffocare le speranze di poterla ancora scampare.

Sapendo del mio arrivo, Andrea mi aveva detto di usufruire liberamente del suo alloggio.

Bene, assentì Alberto, e quanto ti fermi?

Riparto venerdì.

Una breve vacanza.

Già.

Bevi qualcosa? Si alzò e aprì il frigorifero.

Io e te divideremo la stanza di Andrea, mi informò stappando due birre. Non erano ancora le dieci del mattino.

Si sedette e accese una sigaretta, espirando lentamente piccoli anelli di fumo che si allargarono verso il soffitto. Imbrunito da una rada barba incolta, il suo viso sembrava quello un gigante bambino.

Sono qui per i porno, disse a un tratto, scrutando la mia reazione. Se ne trovano di ogni genere qui, roba di nicchia, merce rara in Italia. Si chinò e tirò fuori una borsa da sotto il tavolo. Tieni, guarda, mi porse un paio di videocassette. Che genere preferisci?

In quel momento suonò il campanello.

Alberto occultò in fretta la sua mercanzia e si alzò.

Ah, sei tu! esclamò aprendo la porta. Per un momento ho temuto fosse la padrona di casa.

Una ragazza dai capelli corti, tinti di rosso, avvolta in un loden e una spessa sciarpa di lana, scivolò nel soggiorno, raggiunse l’angolo cottura e lanciatami un’occhiata furtiva poggiò due borse di plastica vicino al frigorifero.

Ho fatto la spesa. Ho preso anche latte e uova, disse ad Alberto. Adesso corro in biblioteca, sono in ritardo. Non torno per pranzo, ok?

La sua voce era melodiosa e allegra, ma sottile, come se si potesse incrinare da un momento all’altro.

Comunque, io sono Bebe, disse tendendomi la mano.

Il suo vero nome era Beatrice, ma si faceva chiamare Bebe, allusione forse all’idea della ragazza ribelle, o alle proprie iniziali e indirettamente alla fama del fratello, membro di un noto gruppo rock cuneese. Ma per quanto si sforzasse, nonostante i piercing e il look birichino, non riusciva a passare per la dura che voleva far credere di essere. Anzi, l’impressione che mi diede dal primo istante fu quella di una persona sensibile e a suo modo fragile, non perché debole o insicura, ma perché autentica ed evidentemente in cerca di qualcosa. Aspetto di lei che mi piacque subito, così come la sua stretta di mano, timida e carica di aspettative, che m’ispirò un istintivo senso di protezione.

Dice di essere a Parigi per il dottorato, commentò Alberto quando fu uscita, ma in realtà è qui per Stefano. Peccato, però, che lui non si sia fatto trovare,…

Andrea condivideva l’appartamento con altre due persone.

Guy, parigino, infanzia difficile, segnata dalle angherie del padre alcolista e dalla droga. Scappato di casa a quindici anni, si era faticosamente affrancato dal proprio passato e nonostante tutto era riuscito a coltivare la propria passione per la musica e la batteria. Aveva talento e il merito di non averlo ancora svenduto. Lui e Andrea si erano conosciuti per caso e presto erano divenuti amici fraterni, compagni d’avventure.

E Stefano. Avevo conosciuto Andrea e Stefano durante il mio anno in Erasmus. Strinsi amicizia con entrambi, ma con Stefano in modo più superficiale. Nel tempo, la sua sicurezza, la sua risolutezza, anche nella ricerca di un percorso di vita alternativo a quello per cui avevamo studiato e che i nostri genitori si aspettavano da noi, me lo resero estraneo, distante dall’inconsistenza delle aspirazioni, dalla mancanza di coraggio e determinazione che da sempre mi accomunavano a Andrea.

Sapevo che lui e Andrea avevano legato molto, soprattutto negli ultimi tempi e nel periodo trascorso insieme a Parigi, un’esperienza che dopo pochi mesi aveva preso tinte bohémien, scandita da incontri con artisti di strada, esperienze di teatro, feste, innamoramenti, mestieri improvvisati e precari, sussidi e vari altri espedienti per pagare le spese e l’affitto. La laurea e gli anni che l’avevano preceduta, erano come congelati e accantonati per un tempo indeterminato.

Stefano non era a Parigi, ma sapevo che sarebbe arrivato il giorno prima della mia partenza e avremmo almeno avuto modo di salutarci.

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In quei giorni perlustrai il centro della città da mattina a sera, spostandomi da un posto all’altro a piedi. Visitavo musei, attraversavo rioni e mercati non rivolgendo la parola a nessuno, se non per necessità.

Osservavo e ascoltavo le conversazioni altrui, brandelli di dialoghi frettolosi, dai quali cercavo di carpire i complessi connotati di una metropoli multietnica. Mangiavo un boccone a un banchetto per la strada o in un caffè, godendomi lo spettacolo della città pulsante, immersa nella sua frenesia quotidiana.

Ero fortunato: non un’ora di pioggia o di cattivo tempo. Camminavo sui marciapiedi, godendomi lo spettacolo di quelle limpide giornate di febbraio, finché i raggi obliqui del tramonto, irrorando un cielo spazzato dal vento, incendiavano le facciate dei palazzi l’attimo prima di riconsegnarle alla morsa del freddo della notte.

Ero in viaggio da solo, senza itinerari né programmi prefissati, un privilegio che mi sono concesso di rado. Una settimana tutta per me, gli ultimi giorni prima di un lungo periodo di privazione. Mentre calpestavo la superficie della città millenaria, i miei sensi eccitati captavano i riflessi di ciò che mi circondava, amplificandone l’effetto: l’austera pietra grigia dei monumenti, le guglie denticolate, il ferro scolpito di chiostre e lampioni, i lisci lastricati che non riuscivano a liberarsi del manto raggelato dell’umidità notturna.

Mi sentivo fuori dal tempo, in un’epoca imprecisata fra antico e moderno, una dimensione o uno stato mentale che mi conferiva la capacità di percepire, oltre le sembianze degli edifici restaurati e adornati e le innumerevoli stratificazioni depositatesi nel tempo, l’energia che impregnava la materia di cui erano fatti.

Una volta una ragazza mi disse che poggiando il palmo a una colonna del duomo di Siena, sentiva il marmo parlare. Allo stesso modo anch’io, senza nemmeno sopraelevarlo, sovrapposi il mio sguardo a quello di Victor Hugo nella celebre apertura di Nôtre Dame de Paris, di cui avevo portato con me una copia.

Amai Parigi senza conoscerla veramente. Amai essere a Parigi in quel modo, vivere l’illusione. Ospite scalzo, mi nutrii di emozioni corticali, suggestioni, scorie, immagini riprodotte dall’immaginario della mia mente. E questo mi bastava.

Le mie peregrinazioni terminavano dopo il tramonto, a sera inoltrata. Rientravo dopo cena, quando ero sicuro di trovare qualcuno in casa.

Quand’era in bolletta, Guy usciva solo se invitato chez quelqu’un. Durante il giorno faceva il giro dei locali in cerca di un ingaggio come musicista, o andava a provare in qualche scantinato. Più raramente rispondeva a qualche annuncio, presentandosi per un colloquio di lavoro, che puntualmente si concludeva in un nulla di fatto, per poi riprendere il giro dei bar.

Ma non tornava mai a mani vuote, al rientro c’era sempre birra per tutti. Il misero soggiorno era il nostro luogo di incontro, fra chiacchiere, risate e dense volute di fumo fino a notte fonda. La stanza era poco illuminata, oltre che sporca, e la luce era sempre accesa, anche di giorno, cosa che contribuiva al clima di sospensione che si respirava in quell’appartamento. Una moneta da venti centesimi incastrata nell’ingranaggio del contatore, faceva sì che rallentasse o si fermasse del tutto.

Le camere erano spoglie, senza arredo, le pareti scrostate e sgarrupate. Si dormiva su dei materassi stesi direttamente sul pavimento, il quale era rivestito da una moquette consunta e polverosa, crivellata di bruciature di sigaretta.

Ci stendevamo sui nostri giacigli a notte fonda.

Le stanze affacciavano su uno stretto corridoio cieco, in fondo al quale si trovava un unico bagno con la vasca incrostata da rivoli scuri. Una sera, di rientro dai miei lunghi giri turistici, trovai finalmente il coraggio di farmi un bagno caldo ristoratore.

Immerso nell’acqua, muovevo lo sguardo intorpidito fra le macchie d’umidità sul soffitto, ascoltando il pigro gocciolio del rubinetto e le voci degli altri in cucina; Guy aveva invitato qualcuno.

La porta si aprì senza preavviso e Bebe entrò con un bicchiere di vino bianco in mano, ignorandomi bellamente. Lo appoggiò su una mensola e avvicinò il viso allo specchio fin quasi a sfiorarlo, scrutando le lunghe ciglia truccate. Mugolò un refrain a bocca chiusa, poi come se niente fosse si rivolse a me: programmi per stasera?

Resistetti alla tentazione di coprirmi e continuai a guardarla con la schiena incollata allo smalto della vasca. Ero disarmato, esposto. Lei si avvicinò. La visione della sua gonna corta e dei collant sopra il bordo della vasca mi eccitò.

La fissai negli occhi. No, nessun programma, al momento.

Bebe piegò le ginocchia e si accovacciò accanto a me con movimento studiato. Il suo sguardo esplorò il mio busto nudo, per metà immerso nell’acqua: il petto, le spalle da nuotatore a cavalcioni della vasca. Posò una mano sul bordo: portava due anelli, di cui uno con brillante, entrambi gioielli di famiglia di bella fattura.

Le sue dita sfiorarono la superficie dell’acqua ormai tiepida. Fu come se me le avesse fatte scivolare lungo il fianco. Guy non ti ha detto che andiamo a ballare? Al Bleu Lézard, ingresso gratuito.

Perché no? dissi muovendo appena il collo.

Tu sarai il mio cavaliere.

Ridacchiò portandosi una mano alla bocca.

Non potei far altro che continuare a fissare i suoi occhi alla Bette Davis, quell’espressione a metà fra donna delusa e bambina sfacciata.

Ça va, disse. Si alzò, recuperò il bicchiere e uscì canticchiando il suo motivetto.

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Non mi sono mai divertito alle feste. Mi hanno sempre lasciato un senso di vuoto e irrimediabile tristezza. Per le occasioni mancate, i flirt iniziati e subito naufragati, le ragazze che prima o dopo sceglievano una compagnia diversa dalla mia, un partner più dinamico, estroso, intraprendente, coraggioso. Ci sono due principi che non ho mai voluto apprendere: le ragazze vogliono solo divertirsi, come insegnava Cyndi Lauper, e l’audacia premia, sempre. Nel migliore dei casi la mia serata evolveva in una bella sbornia, magari accompagnata da qualche canna e da discussioni esistenziali sui problemi che affliggevano i più, o chi come me in quel momento non era impegnato in altro. Non ero uno sfigato, potevo piacere alle ragazze, alcune di loro mi cercavano anche, solo mi mancava l’iniziativa.

Un’uscita in discoteca non era come andare a una festa, ma non essendo mai stata un’abitudine per me, era pur sempre un evento in grado di trasmettermi una mescolanza di aspettative, incertezze e curiosità. Andare in un locale con l’idea di sballare un po’ e possibilmente rimorchiare un ragazza, rappresentava per me un eterno rito di iniziazione, mai definitivamente esorcizzato.

Non ero mai stato in una discoteca di Parigi.

Il Bleu Lézard più che una sala da ballo sembrava un interrato pieno di persone ammucchiate su dei gradoni di cemento e qualche divanetto dall’aspetto ben poco invitante, distribuito qua e là. La luce scarseggiava ovunque, anche al bancone del bar. La musica non era un granché, troppo cupa e africana per i miei gusti.

La gente appollaiata sui bordi era molta di più di quella in pista. Erano quasi tutti neri. Maschi, grossi e neri. Vestiti quasi tutti uguali, con pantaloni e giacconi di tute larghe e scure. Alcuni con le treccine e il fare più cool, altri più massicci e ai miei occhi minacciosi.

Su un divanetto, Bebe e due amiche di Guy erano accerchiate da alcuni ragazzi. Quando le raggiunsi, mi trasse a sé per un lembo della giacca. Stammi vicino, mi disse all’orecchio. Fingi di essere il mio ‘mec’, mi sfiorò il collo con le labbra. Il ragazzo che le stava appiccicato da un po’ tenendole un braccio sulle spalle, mi fissò interrogativo. Aveva una faccia simpatica. Da buon maschio alfa, gonfiai il petto, mi feci spazio e presi posto accanto a Bebe. Dopo un momento mi chinai e la baciai sulle labbra. Il ragazzo si allontanò senza fare tante storie.

Ballammo un po’, bevemmo il giusto, fumammo e respirammo sempre più faticosamente in quell’ambiente claustrofobico, uscendo a intervalli a prendere qualche boccata d’aria fra coppie che pomiciavano e ragazzi su di giri che facevano baccano prendendo a calci bottiglie e lattine. Niente screzi o cenni di rissa, la serata scivolò via senza nulla di eclatante.

Rimasi incollato alle ragazze. Bebe e io incrociavamo spesso gli sguardi cercando di indovinare l’uno le intenzioni dell’altra. Quel bacio una frase rimasta in sospeso, qualcosa con cui trastullarsi sul confine di una notte straniera. Ma più passava il tempo, più l’onda sfumava e una forma di reticenza ci imponeva di prendere le distanze impedendoci nuovi approcci.

Uscimmo a fumarci una sigaretta da soli e finimmo a parlare dei grandi assenti. Stefano e Andrea. In un modo o nell’altro erano sempre fra noi, li nominavamo in continuazione. Ma non avevamo mai parlato di quello che era successo.

Avevano litigato, qualche settimana prima. In un accesso d’ira Andrea aveva spinto Stefano contro una parete ingiungendogli di lasciare la casa. Urla e spintoni che posero fine a un sodalizio che durava da anni.

Conoscendolo, credo che Stefano non abbia mai perso la calma, anzi, abbia ostentato anche in quell’occasione la placida e autorevole convinzione nei propri comportamenti, quelli che da tempo ormai disturbavano Andrea.

Andrea era un sopravvissuto, era scampato al suo demone. Andando a vivere all’estero, lontano dalla famiglia, dalla sua città, dalla vecchia cerchia di amicizie, aveva avuto una seconda occasione e l’aveva colta al volo emergendo dal buio di una profonda depressione. Stefano e io avevamo assistito a quella rinascita. Stefano all’inizio l’aveva aiutato, ma la sua presenza nel tempo era diventata scomoda e ingombrante. Forse le sue richieste facevano leva sul fatto che Andrea potesse sentirsi in debito o addirittura succube nei suoi confronti. Ma Andrea non gli doveva niente e tantomeno doveva giustificare i suoi comportamenti.

Quel fatidico giorno le sue furono urla di frustrazione covate a lungo, un’ira repressa che finalmente sgorgava e usciva fuori. Per Andrea fu una dolorosa liberazione, per Stefano l’amara constatazione di qualcosa che forse riteneva potesse accadere da un momento all’altro.

Stefano era una persona affascinante: intelligenza accesa, appassionato d’arte e filosofia, pensiero libero e critico. Non era il suo aspetto fisico a conquistare le persone che lo avvicinavano, non era la sua bellezza ad aver sedotto Bebe.

Tornati a casa, io e lei ci ritrovammo in cucina, al buio, a bere e fumare fino al mattino. Bebe mi raccontò tutto. Io la ascoltai pazientemente.

L’accompagnai nella sua stanza e stetti con lei finché non si addormentò. Quando chiusi la porta della camera il suo corpo addormentato era illuminato dalla prima luce del giorno che filtrava dalle persiane.

Mi coricai sul materasso di Andrea. Intorno a me i segni della sua presenza: lo zaino, scarpe e vestiti ammucchiati qua e là nella stanza, le pile di libri accanto al letto.

Questi ultimi avevano attratto la mia attenzione. In quei giorni li avevo sfogliati più volte immedesimandomi nelle sue letture, intravedendo i segni della sua ricerca. Ho sempre ammirato la passione indagatrice con cui avvicinava uno scritto, il modo in cui lo rendeva reale, pulsante; carne, respiro, sangue.

Scriveva quotidianamente, da anni, poesie, racconti, e io ancora non lo sapevo. In seguito fu lui a insegnarmi il coraggio di ascoltare la propria voce. Fu una sorta di iniziazione. Gliene sarò sempre grato.

Intrecciai le mani dietro la nuca, occhi al soffitto. Il sonno tardava ad arrivare.

Sei tu il Paolo di cui tutti mi parlano! disse Andrea, quando ci incontrammo per la prima volta. Aveva una barba scura incolta; i capelli, troppo lunghi, mostravano una prematura canizie. Indossava un camicione canadese sopra una t-shirt bianca e dei jeans lisi, un po’ stretti. Dimostrava dieci anni in più.

Nei mesi seguenti il suo aspetto cambiò radicalmente. Si rase a zero e ricominciò a fare sport assiduamente. Facevamo interminabili sfide a basket, uno contro uno. Non era questione di bravura tecnica, ma di resistenza. Non ci interessava tanto il risultato, quanto giungere sfiniti alla meta.

Partecipare alle feste e conoscere gente per lui divenne una prerogativa, una necessità. Eravamo spesso invitati a cena e ci ritrovavamo a fine serata a intavolare interminabili dissertazioni che duravano ore. Que ce sont jolis ces italiens qui parlent entre eux en français!

Era un modo per rimanere dove eravamo, nel luogo che ci eravamo creati, che ci eravamo guadagnati. Lontani dal nostro essere di prima, nella nostra nuova identità. La nostra rinascita.

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Bebe partì la sera dopo, in auto, con Alberto e degli italiani che viaggiavano di notte.

Non la rividi più.

Parigi non esiste.

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La mattina seguente andai incontro a Stefano a Gare de Lyon. Facemmo una lunga passeggiata a piedi parlando un po’ di tutto, tranne che delle cose importanti. Quando Stefano si informò sullo stato della casa, intendendo chi la occupasse in quel momento, gli confermai che Bebe se n’era andata.

Ti spiace se prendo un po’ di pane? chiese.

Uscì da una boulangerie con una baguette sotto il braccio, che iniziò a sbocconcellare strappandone dei pezzi. Me ne offrì un po’: era ancora calda, buonissima.

È una delle cose che più mi piace fare in questa città, disse, camminare per la strada mangiando del pane fresco.

Se c’era una cosa che apprezzavo in Stefano era la sua capacità di godersi l’attimo, di trovare sempre un motivo per farlo. Quando non era così semplice, si accendeva una sigaretta, inspirava una vorace boccata e il suo sguardo vagava tutt’intorno in cerca di ispirazione finché, trovatala, tornava da te sorridente, appagato e calmo.

Non chiese di Andrea.

Fui io a informarlo dei suoi programmi, pensando che gli interessasse sapere che non sarebbe tornato a Parigi prima della fine del mese. Era anche un modo per tirar fuori l’argomento. Avrei voluto capire cosa fosse successo, come stavano le cose adesso fra loro. Ma mentre gli parlavo, Stefano si girò a guardare qualcosa dall’altra parte della strada, annuendo distrattamente.

Parigi non esiste, non è mai esistita.

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Sono passati venticinque anni da allora.

Sono successe tante cose nel frattempo. La vita ha fatto il suo corso e ognuno di noi ha seguito la propria traccia. Ma il pensiero torna spesso ai giorni del prima, quando tutto era ancora possibile.

Non ho più notizie di Stefano. Nei mesi che seguirono si cimentò come musicista, attore. Trovò un altro alloggio, visse a Parigi, Ginevra, poi si trasferì in Polonia. Quando parlavamo del futuro, di chi voleva che mettessimo a frutto la nostra laurea, che avessimo un lavoro sicuro, Sai come li chiamo, io? diceva, Cacciatori, pronti a sparare sui nostri sogni.

L’ultima volta lo incontrai su un treno. Partivamo entrambi per la Spagna per trascorrervi gli ultimi giorni dell’anno. Io ero in compagnia di altri amici, destinazione Madrid. Lui con una biondina, più giovane di noi, molto carina, sorriso angelico.

Andiamo a Barcellona, disse, poi si vedrà.

Era seduto sul pavimento dello scompartimento, le mani appoggiate sulle ginocchia di lei, che aveva preso uno dei pochi posti liberi su un divanetto; una posa che evocava le scene di corteggiamento di certi quadri romantici. In piedi, accanto a lui, la custodia di una chitarra, sembrava il suo unico bagaglio.

Anni dopo, Andrea mi disse che da qualche tempo era definitivamente rientrato in Italia e lavorava come ingegnere nell’azienda del padre della sua fidanzata. Aspettavano il secondo figlio. La generazione.

Più la rileggo, più penso che questa storia, in realtà, parli di Andrea. Ma Andrea non c’è.

Andrea e Parigi nella mia mente sono inscindibili. Scrivere di Parigi senza Andrea significa che fra noi è finita.

Questa volta per davvero. Per sempre.

Potevamo stare lontani per anni senza vederci, né sentirci e l’attimo dopo esserci ritrovati comportarci come se nulla fosse cambiato e il tempo si fosse fermato. Riprendevamo il discorso dal punto in cui l’avevamo lasciato con il consueto interesse, il medesimo coinvolgimento. La lettura di un libro, un nuovo autore, un viaggio, un nuovo lavoro, un romanzo in gestazione, un figlio in arrivo,…

Un’incomprensione.

Davvero le parole appartengono al passato?

Davvero si cambia?

Forse sono l’unico a non averlo ancora fatto.

Parigi non esiste, non è mai esistita.

Quello che eri per me, non sarà più.

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Ho paura che Andrea non scriva più.

Non mi è dato sapere se sia così.

Non risponde al telefono, né alle e-mail.

L’idea di essere stato uno dei pochi ad avere conosciuto la sua creatività, così aperta, curiosa, così vulcanica, mi rattrista profondamente.

Ma in cuor mio, son convinto che non sia così.

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eravamo giovani,

quel vento per noi

non soffierà più.

Parigi non esiste,

non è mai esistita.

non ti rivedrò.

chi eri per me

non sarà più.

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[P.B., 09/01/2024]

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Immagine: Silvia Giusti