Istantanee del dopo guerra

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Voglio terminare questo viaggio in compagnia di nonno Virgilio sul fronte della Grande Guerra, riportando alcune sue annotazioni che si riferiscono al dopo. Sono due istantanee. Una scattata immediatamente a ridosso del termine del conflitto; siamo nel dicembre del 1919 e dal racconto si percepisce il forte fermento socio politico in atto in quei mesi. L’altro è un piccolo frammento, una scheggia raccolta a distanza di più di dieci anni, a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi narrati fin qui e dal vecchio continente.

In conclusione voglio ringraziare mio nonno per questa testimonianza (e suo figlio, Pier Luigi, che per primo, vent’anni fa, l’ha riportata alla luce per farne memoria condivisa), che pur apparendo volutamente obiettiva e distaccata, nell’intento di narrare soltanto i fatti salienti, in realtà rivela anche molto di un uomo, un familiare, che in vero non ho conosciuto. E così pure per il racconto degli eventi, oculatamente calato nel loro contesto, talvolta arricchito di preziosi dettagli, che è stato per me alquanto istruttivo.

P.

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Milano, dicembre 1919

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Prima pagina del giornale “Avanti!”, Aprile 1919 – web

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Nel dicembre del 1919 mi trovavo ancora a Novara, in forza al 23° Reggimento di fanteria, in attesa di congedo. Una mattina lessi sul “Corriere” di un processo al tenente Sabatini, promosso dai tenenti Ceridoni e Giordano, i quali lo accusavano di essersi arreso quando era ancora possibile resistere nell’episodio dell’anno precedente, a ottobre, quando oltrepassammo il Piave. A parte qualunque altra considerazione, il fatto mi indignò, perché, come ho precisato nel mio racconto, i due tenenti erano venuti dal collega Sabatini a consigliargli la resa ben prima della sua decisione, ed erano stati da lui respinti in malo modo.

Il processo avrebbe avuto luogo a Milano, presso il Tribunale Militare. Difensore del tenente Sabatini era l’onorevole Gasparotto ex combattente nell’arma di fanteria e autore del libro “Il diario di un fante”, in cui descrive episodi di guerra ai quali aveva partecipato quando anche lui faceva ancora parte dell’arma dei bombardieri. Non persi tempo e la mattina successiva partii da Novara alla volta di Milano per incontrarmi con l’onorevole Gasparotto ed offrirmi come teste a discarico.

Arrivato a Milano, fui sorpreso di trovare la città deserta e senza servizi pubblici. Mi avviai così a piedi, dalla stazione lungo i bastioni, per raggiungere Corso Venezia, dove si trovava un ristorante in cui lavorava un mio cugino. Avevo in programma di recarmi poi di lì allo studio dell’onorevole Gasparotto, nei pressi del Palazzo Reale.

Erano giorni di elezioni e, ritenendolo particolarmente occupato, essendo candidato, pensavo di andare da lui nella tarda serata. Fermato uno dei rari passanti, appresi che era in atto uno sciopero generale, ma non me ne seppe spiegare i motivi. Imboccai Corso Venezia e all’altezza dei giardini pubblici mi venne incontro un corteo di scioperanti, sventolando bandiere rosse e gridando slogan. Il corteo procedeva ordinato sulla strada, senza invadere il marciapiede. Mi fermai ad osservare, quando a un tratto un gruppetto si staccò dal corteo e venne a circondarmi, spalle all’inferriata dei giardini. Sentii uno gridare: “L’è chi el militar!”, se ne poteva tradurre il senso in: “Ecco qui quello che fa al caso nostro!”. Un altro cominciò a interrogarmi, insistendo soprattutto per sapere dove mi trovassi la sera precedente. Mi fu facile dimostrarlo esibendo il mio biglietto ferroviario. Questo però non placò gli animi di tutti e diversi insistevano per darmi una lezione, particolarmente perché dalla mia divisa avevano capito che ero un ardito. Seguirono brutti momenti.

Alla fine di fece largo ed uscì dal corteo, che continuava a sfilare, quello che doveva essere un dirigente del partito; si rese conto dei rischi della situazione, mandò tutti nei ranghi e si fermò al mio fianco. Le persone continuavano a passare, ad un certo punto il mio angelo custode chiamò un compagno a sostituirlo e questo rimase fermo al mio fianco finché il corteo non fu terminato. Ripresi allora il mio cammino per la strada deserta e raggiunsi finalmente il ristorante dove ero diretto.

Appena entrato, mi venne incontro la padrona che, dopo i convenevoli, mi pregò di non trattenermi vicino alla porta di ingresso, dove la mia presenza avrebbe potuto essere notata dalla strada. Mi ritirai disciplinatamente in una saletta interna, dove ebbi finalmente la spiegazione della caccia all’ardito. La sera precedente alcuni di loro avevano lanciato bombe contro la sede dell'”Avanti!” in via San Damiano, lì vicino. Di qui la reazione dei partiti della sinistra, la proclamazione dello sciopero generale e l’organizzazione di cortei di protesta e comizi in piazza. Nel clima politico del 1919 questi episodi erano all’ordine del giorno.

Al ristorante mi offrirono degli abiti borghesi, ma io rifiutai. A sera inoltrata uscii per recarmi dall’onorevole Gasparotto. Le strade erano deserte, ma presidiate da picchetti di carabinieri e poliziotti. La mia presenza non mancava di attirare la loro attenzione. All’altezza del Duomo trovai una pattuglia particolarmente numerosa. Il comandante, un tenente dei carabinieri, ordinò a due dei suoi di scortarmi fino allo studio di Gasparotto, che trovai assai euforico perché era terminato da poco lo spoglio delle schede elettorali ed aveva appena saputo di essere stato confermato deputato. Ascoltato ciò che avevo da dire, disse che la mia deposizione avrebbe potuto decidere le sorti del procedimento.

Dopo il colloquio, ripassando dietro al Duomo, mi fermai a ringraziare il comandante dei carabinieri e tornai al ristorante senza ulteriori inconvenienti. L’indomani la situazione era rientrata nella normalità e ripartii per Novara.

Tornai a Milano per il processo Sabatini. Quando, interpellatomi, accennai alla circostanza che in effetti i due sottotenenti accusatori erano venuti dal Sabatini a proporgli la resa ed erano stati rispediti malamente, l’onorevole Gasparotto si alzò e disse: “Da questo testimone sappiamo la verità sui fatti”.

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Due nemici

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Anno 1932.

Mi trovavo a Giava, quando ebbi bisogno di un otorinolaringoiatra. A Bandung, la città nel centro dell’isola, capitale estiva, c’era un professore austriaco di buona fama e mi recai da lui.

Era un ex ufficiale di artiglieria e scoprimmo di aver combattuto uno di fronte all’altro sulla Bainsizza, dove lui era stato fatto prigioniero. Il suo pezzo, piazzato sulle alture di Auzza, era stato colpito e distrutto da una bomba da 240 delle nuove bombarde di tipo L.L., sparata da Ronzina. Mi disse che ritenevano la loro artiglieria al sicuro dal tiro delle nostre bombarde e che erano rimasti sorpresi da quelle nuove, a lunga gittata. Era la prima volta infatti che le L.L. entravano in azione.

Lo informai che io mi trovavo esattamente di fronte a lui e che avevo sparato bombe in quella direzione per tutto il giorno.

“Una cosa sporca, la guerra,” commentò. “Abbiamo fatto del nostro meglio per eliminarci a vicenda e ora sono qua che le metto a disposizione la mia scienza per salvarle un orecchio.”

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[dal memoire sulla Grande Guerra di mio nonno, Virgilio Giorgi]

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Nonno Virgilio e i nipoti (io sono quello più piccolo, a destra) – Inverno 1977-78

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Grazie a tutti dell’attenzione.

P.

L’irreale diventa reale. Un’illusione d’amore.

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E. Schiele, “Abbraccio” – web

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Quando ti si ascolta – interruppe Agathe il fratello con un rimprovero che tradiva la sua partecipazione interiore – allora si dovrebbe pensare che la persona reale non si ama realmente, e la persona irreale, realmente!

Proprio questo ho voluto dire, e qualcosa di simile ho anche sentito da te.

Ma in realtà le due persone sono infine una sola! […] Forse anche la persona reale diventa del tutto reale solo nell’amore? Forse prima non è completa?

[R. Musil, da “L’uomo senza qualità”, romanzo incompiuto]

Musil e la “romantica” ricerca di una soluzione all’eterno dilemma esistenziale, rappresentata nell’amore “impossibile” fra fratello e sorella (Ulrich e Agathe nel romanzo).

Prigioniero. Gli ultimi giorni di guerra.

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Arciduchessa Zita (1916) al “Feldspital” (rancio)

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La prima tappa da prigionieri la facemmo al castello di Susegana, dov’ero arrivato come fresca recluta un anno e mezzo prima. Ci fermammo ad una postazione di artiglieria, dove un graduato era intento a distribuire il caffè ai suoi soldati. In vita non ho mai agognato un caffè come in quel momento.

Qui successe un fatto curioso.

C’era fra noi un caporalmaggiore genovese che lavorava al porto come capo squadra degli scaricatori. Il comandante ungherese della batteria di artiglieria era, da borghese, rappresentante di una società di trasporti di Budapest al porto di Genova, e l’incontro fra i due fu assai cordiale e piuttosto chiassoso. Il graduato che stava distribuendo il caffè, accigliato in volto per la bisogna, seccato da una rumorosa risata del caporalmaggiore, si voltò di scatto e gli diede il mestolo in faccia. L’ufficiale ungherese reagì contro il suo subordinato e gli diede due nerbate con una specie di scudiscio che teneva in mano, accompagnandole con una filza di improperi, o minacce che siano state. Chiamò poi un soldato e fece accompagnare il prigioniero al posto di medicazione.

Dal castello di Susegana scendemmo poi al paese. Mentre attraversavamo la piazza principale, arrivò una granata che miracolosamente non fece vittime; era la prima granata italiana, alla quale molte altre dovevano seguire, specie nel primo tratto verso il nord.

Attraversammo Conegliano, apparentemente deserta, ma in effetti con la popolazione tappata in casa, che socchiudeva le finestre al nostro passaggio. Sotto i portici della cittadina, una ragazza aprì l’uscio di casa e ci fece delle domande. Un soldato della scorta allungò una mano per farle una carezza e ricevette i più coloriti apprezzamenti contemplati dal vocabolario del dialetto veneto…

In tutti i paesi che attraversammo suscitavamo la curiosità della gente, avida di notizie sull’andamento della guerra. Le nostre divise, non ancora sciupate, denotavano che eravamo prigionieri appena catturati, portatori di notizie fresche.

Che ci fosse qualcosa di nuovo, potevamo arguirlo dal cannoneggiamento in corso lungo il fronte di guerra. marciavamo tutto il giorno con soste di notte in campi che ospitavano anche altri prigionieri. La fame ci torturava, perché ci davano al più due o tre fette di pane nero al giorno. Attraversando un paesetto del Friuli, camminando rasente le case, vidi un giorno socchiudersi una porta e una mano che allungava un cartoccio, che subito afferrai: conteneva castagne arrosto, e furono le castagne più buone che abbia mai mangiato in vita mia.

Dopo tre o quattro giorni di cammino imboccammo la Valle Fella, sulla via del confine di Pontebba. La strada era intasata di traffico in direzione del confine, il che significava che gli Austriaci erano in ritirata. Le nostre guardie però erano sempre ligie al loro compito, dovevano portarci al confine. Quando vi arrivammo, ci abbandonarono al nostro destino e noi prendemmo la via del ritorno.

C’erano ormai due correnti di persone, una verso l’Italia, l’altra verso l’Austria; la prima composta da ex-prigionieri, la seconda da un esercito in rotta. La parola “Kamerad” si scambiava da una fila all’altra. Io mi ero accompagnato con un commilitone, tale Agosti di Brescia. Costui, durante una sosta della nostra lunga marcia, era sceso sul greto del fiume, dove una cucina mobile austriaca stava preparando il rancio ed aveva disposto sui sassi diversi tranci di carne. Agosti manovrò in maniera da prelevarne uno, avvolgendolo nella coperta che avevamo in dotazione. Io avevo notato una cascina sull’altra sponda del Fella, verso la quale ci dirigemmo. Al punto giusto attraversammo il fiume e risalimmo per il sentiero che portava alla cascina. Prima di arrivarci, incontrammo un gruppo di prigionieri italiani che scendevano dalla montagna scortati da soldati austriaci. Spiegammo loro la situazione e che arrivati sulla strada principale, potevano dirigersi verso l’Italia, anziché verso l’Austria. Mentre parlavamo, i soldati della scorta si dileguarono.

Raggiungemmo il cascinale ed entrammo. Era abitato da una contadina e dalla figlia, una ragazza dai capelli rossi. Dopo che ci ebbero riconosciuti come soldati italiani, fummo accolti con entusiasmo. Le donne prepararono un bollito, al quale aggiunsero delle patate che tenevano nascoste in un fienile. Dopo mangiato, io e il mio compagno andammo a dormire nel fienile. Ci svegliammo il giorno dopo, alle dieci.

Riprendemmo il cammino verso valle, seguendo il sentiero sulla riva sinistra del fiume, perché la strada sulla riva opposta era occupata dall’esercito austriaco in ritirata. Verso mezzogiorno arrivammo ad un gruppo di case ed entrammo in una di esse, in una stanza che ospitava una grande cucina economica. L’attenzione dei presenti, e nella stanza credo che si fossero radunati tutti gli abitanti del luogo, fu subito attratta dalle buone condizioni delle nostre divise, che dichiarava il nostro stato di prigionieri recenti.

Fummo bersagliati da domande e le nostre risposte riuscirono a chiarire qual’era la situazione attuale del fronte: l’esercito austriaco era davvero in ritirata, e per sempre. Domandammo l’uso della cucina per cucinare un po’ di carne, cosa di cui si incaricò subito una donna. Ad un tratto si affacciò alla porta d’ingresso un ufficiale austriaco; nel frattempo si erano uniti a noi altri prigionieri italiani di vecchia data. Indirizzandosi al nostro gruppo, l’ufficiale domandò in francese chi fra noi lo parlasse. Mi feci avanti. L’ufficiale mi informò che stavano trasportando un maggiore austriaco ferito e mi chiese il permesso di usare la cucina per preparare un po’ di cibo. “Après nous”, risposi, quasi con arroganza, effetto degli sviluppi della guerra. Fino a quel momento prigioniero sottomesso alla volontà altrui, sentii che la situazione si era rovesciata. Ma subito dopo, invitai l’ufficiale a disporre della cucina. Fecero entrare il maggiore ferito, adagiato su una rudimentale barella portata da quattro soldati, mentre altri quattro erano di riserva per il cambio. Era ferito ad una gamba, ma non domandai la natura della ferita: probabilmente un incidente, poiché il fronte di combattimento era lontano.

Dopo esserci rifocillati, Agosti ed io riprendemmo la marcia verso sud. Seguimmo ancora il sentiero sulla sponda sinistra del torrente, finché a un tratto sentii il caratteristico colpo secco del 91, il fucila in dotazione al nostro esercito, e il crepitio di una mitragliatrice. Arrivavano i nostri. Passammo il torrente e ci trovammo sulla strada completamente intasata. Il traffico si era fermato, i soldati austriaci erano indaffarati a liberarsi delle armi.

Alla prima svolta ci apparve il ponte di Moggio: ne ostruiva l’entrata un’autoblinda italiana piena di bersaglieri. Un ufficiale invitava noi prigionieri, o ex prigionieri, ad armarci con i fucili del nemico perché i rinforzi della piccola pattuglia erano ancora lontani e avrebbero potuto essere sopraffatti. Fummo in pochi ad armarci.

Le parti si erano invertite: quelli che fino a poco prima erano prigionieri, si misero a spogliare i loro ex carcerieri, razziando portafogli, orologi e tutto ciò che avesse un qualche valore. Uno spettacolo deplorevole.

Con gli ex prigionieri armati, l’ufficiale che capitanava la pattuglia dispose un picchetto sulla testata del ponte, con l’ordine di non lasciare passare nessuno, e un secondo picchetto a metà ponte, cui fui assegnato anch’io, nel caso il primo fosse stato travolto. Dall’altra parte del ponte erano rimasti imbottigliati due reggimenti austriaci, ai quali una sola autoblinda italiana andava a chiedere la resa.

Non passò molto tempo che arrivarono altri mezzi blindati e corazzati dei nostri, e poi bersaglieri e truppe autotrasportate. Con il loro arrivo, il nostro compito era finito. Al di là del ponte innalzarono bandiere bianche in segno di resa.

Nella loro ritirata, ormai diventata una rotta, gli Austriaci abbandonavano tutto e all’imbocco della Valle Fella, avevano lasciato liberi cavalli e carriaggi in quantità. Agosti, seguendo l’esempio di altri, si impadronì dell’avantreno di una cucina mobile austriaca, abbandonata con i due cavalli, e con quel mezzo proseguimmo il nostro viaggio. Man mano che penetravamo nel nostro territorio, aumentavano ordine e controllo, molti prigionieri vendevano i cavalli recuperati ai contadini prima che gli venissero requisiti dall’esercito ai posti di blocco. Il giorno seguente, infatti, fummo fermati e ci presero i cavalli, ordinandoci di dirigerci ad un posto di raccolta in un paese di cui non ho più nessun ricordo. Qui mi offrirono di rimanere perché avevano urgente bisogno di scritturali, aggiungendo che, se avessi accettato, alla chiusura del centro, avrei avuto una licenza più lunga di quella accordata a tutti gli ex prigionieri. Accettai.

Al termine della licenza, mi ripresentai al punti di partenza, ovvero al distretto militare di Voghera e di qui fui destinato al 23° Reggimento fanteria di stanza a Novara, dove rimasi fino al congedo.

La vita militare per me era ormai terminata. Ritornai a scuola, questa volta all’Istituto di Agraria Coloniale a Firenze. Eravamo nel 1920 e avevo 22 anni.

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[dal memoire sulla Grande Guerra di mio nonno, Virgilio Giorgi]

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Immagine di copertina tratta dal web