Profanato bene

Concerto in chiesa

E se non muore, col flit

L’ingresso è libero, arrivo con buon anticipo e prendo comodamente posto in un banco a metà navata. Nell’attesa leggo con calma il programma. Quando sta per cominciare il concerto, mi guardo attorno e mi accorgo che la chiesa è ancora semi vuota. In quel momento entrano i musicisti.

Per prima la pianista. Occhi scuri, capelli corvini, vestito nero scollato, braccia nude. Grande femminilità. Raggiunge il centro della navata e mette una mano sul piano a coda illuminato sotto l’altare. Pare carezzarlo e cercarvi sostegno al tempo stesso, non stacca la mano per tutto l’inchino. La raggiunge il violinista. Ho letto di lui sul volantino: estroso, giovane talento, pare giunto per lui il momento di sbocciare e accedere al palco dei grandi. Al suo arrivo la pianista s’inchina di nuovo indicando alla platea il vero re della scena. Il quale indossa una camicia viola elettrico sbottonata sul petto, dettaglio che, con l’acconciatura ribelle, lo rende alla sua giovane età.

Esaurito un breve applauso, ha inizio il concerto: Tartini, Sonata in Sol minore.

Il violino comincia a cantare. La sua voce vellutata riempe in breve le navate di un suono pulito e vibrante senza un mordere, né un’incrinatura. Il giovane vi è immerso a sua volta e asseconda l’armonia del suono con l’enfasi dei propri gesti. Sollevava l’arco fin sopra la spalla per farlo calare con un impeto domato all’ultimo. Ne assapora quindi l’uscita, innalzandolo nuovamente con un ampio movimento del gomito. Il suono mi giunge così nitido e avvolgente, che alzo lo sguardo alle volte della navata interrogandomi sul pregio di quell’acustica. Comincio a convincermi del talento del giovane musicista.

Segue Schubert, Sonatine in La minore. La melodia si ravviva, si fa articolata e cerebrale. Ancora una volta, però, sono le calde e morbide note liberate dall’arco a impressionarmi più di ogni altra cosa. Ho l’impressione che, dal suo canto, anche il giovane interprete sia realmente appagato dalla qualità della propria esecuzione. E’ concentrato, coinvolto, la fronte imperlata da qualche goccia di sudore. A ogni pausa abbandona il capo all’indietro con gli occhi chiusi, rimanendo immobile per qualche istante. L’attacco è preceduto da una serie di movimenti sempre uguali: con la sinistra percorre il manico dello strumento sfiorandone appena le corde, mentre con la destra batte nervosamente l’archetto sulla costa dei pantaloni, come un frustino. Infine asciuga le mani in un enorme fazzoletto bianco, che non si cura di far sparire del tutto nella tasca.

Nel frattempo, la pianista lo osserva senza allentare la concentrazione dipinta sul volto. La schiena inarcata, rimane in punta di dita sulla tastiera in attesa del segnale convenuto, concedendo al solista il tempo di riaversi.

Schubert chiude la prima parte del concerto, che il violinista porta a termine egregiamente, senza sbavature o inciampi di sorta, avvicinando il pubblico alla grandezza della propria arte. Provo invidia per quel talento, ma quel mio sentire si trasforma ben presto in un moto di sincera, ammirata gratitudine.

La seconda parte del concerto è decisamente più scenica e d’effetto. Un omaggio, come ho avuto modo di comprendere in seguito, alla sete di spettacolo di un pubblico inesperto. Perché la musica, si sa, deve muovere anche altro, deve far divertire.

Tocca quindi a Sarasate, Carmen Fantasy, poi a Flaure e infine a Ravel con la sua animata Tzigane. Virtuosismo e destrezza prendono il sopravvento, il piano scompare sullo sfondo di un devoto, umile accompagnamento, sovrastato dall’impeto e dall’ebbrezza della voce del violino. Il talentuoso violinista ora mostra i muscoli e lo fa con un’arte e un dinamismo in grado di coinvolgere la platea in un crescente entusiasmo.

Ci siamo, penso eccitato, trascinato a mia volta in quell’onda. E’ l’acme, la vetta dello spettacolo. Eppure, in quel tripudio qualcosa va storto.

In realtà, non accade nulla di strano o imprevedibile. Diviene semplicemente evidente ciò che forse non lo è stato fino a questo momento: la superba esecuzione cui stiamo assistendo è qualcosa che un pubblico improvvisato non è sempre in grado di apprezzare fino in fondo. Si dice che l’arte debba essere accessibile a tutti, il fatto è che nessuno di noi fortunati fruitori occasionali ne conosce la partitura.

E’ così che, in un eccesso di partecipazione spontanea e inopportuna, invadiamo una pausa di cui ignoravamo l’esistenza, applaudendo a scena aperta e interrompendo di fatto l’esecuzione. Il giovane solista si blocca e senza sollevare il mento dal violino fa cenno alla platea di tacere, mentre lo sguardo inferocito della pianista vola come un’aquila sulle prime file.

Un errore può forse essere perdonato, ma il colpo di grazia giunge poco dopo, quando sul gran finale della Tzigane, sono proprio loro, i musicisti, ad attendere invano l’applauso. Il quale non solo giunge tardivo, ma addirittura sul loro incoraggiamento. Il pubblico, infatti, mortificato dal primo errore, rimane invano in attesa di un segnale, l’inequivocabile primo battito di mani che ogni volta invita e autorizza il plauso collettivo. Ma il segnale non arriva e il giovane solista ha tutto il tempo di abbassare lo strumento, fissare attonito la platea silente e infine spronarla con un significativo gesto della mano. A quel colpo di frusta il gregge ignorante risponde con uno scrosciante plauso liberatorio e contrito al contempo. Consci del duplice errore stiamo chiedendo perdono. E le nostre mani grate non si arrendono, ma continuarono imperterrite ad applaudire, anche quando i musicisti si ritirano in sagrestia, finché non ne escono di nuovo.

Questa volta, però, la donna non raggiunge il piano, non vi si avvicina nemmeno. Fa un rapido inchino e si volta di scatto, tornandosene da dove è venuta.

Anche il violinista arriva solo fino a metà della prima fila di banchi. Esita un istante, poi dice qualcosa che non riesco ad udire. Infine imbraccia lo strumento per un ipotetico bis, ma con mia grande sorpresa esegue solo una breve tiritera, un infantile “ta-tta-ra-ta-tta–ta-tta!” Seguito dal silenzio.

Sono interdetto. Nel tempo in cui mi chiedo cosa stia succedendo, il giovane, senza nemmeno un saluto, si è già dileguato.

Costernato, mi alzo in piedi in preda all’impulso di dire qualcosa, ma le parole mi muoiono in gola. Nel frattempo mi torna alla memoria il refrain di un vecchio spot pubblicitario, un banalissimo motivetto che in quel frangente tuttavia ha l’effetto di uno scossone, di un insulto. E di fatto lo è, l’ho capito.

L’insulso motivetto rimarrà infatti intrappolato nella mia testa per il resto della serata, cancellando con la sua eco indigesta le emozioni generate da tutto ciò che l’ha preceduto.

Ta-tta-ra-ta-tta–ta-tta!”.

Ma certo, penso, è proprio lui: “Ammazza la vecchia, col flit!”

In punto di morte

Letto di morte

Egon Schiele sul letto di morte, 1° Novembre 1918.
Fotografia di Martha Fein

C’è chi di morti ne ha viste più d’una. Di morti in casa, intendo. Mia madre, ad esempio, che ha strappato la sua ad aghi e tubi per assisterla in casa, fino alla fine. E l’ha tenuta fra le braccia in quell’ultima notte di lotta, quando la luce dal comodino gliel’ha rivelata di nuovo, da scomparsa che era. Prima un gemito, un cigolio, poi due mani e un corpo, appesi alla croce. Vide prima le dita, artritiche e forti, strette come artigli, alla rete del letto. Poi la testa, occhi serrati, le sopracciglia unite in uno spasmo di repulsione, di visione, di ammissione. I capelli sottili e fragili come crini, ancora severamente raccolti in quella sua lunga treccia ritorta, color del rame. Sul suo volto d’uccello un urlo scolpito. Sul pavimento, sotto il letto, il resto. Le gambe unite in un unico ramo nodoso, cimato e spoglio, il ventre, il bacino, immersi con loro in quel pozzo.

Io non c’ero. Ero all’estero. Non l’ho salutata. Né seppi dire o fare nulla, la mattina di qualche anno prima, quando toccò allo zio. Ero l’unico in casa quel giorno. Mi svegliò la badante, non ricordo che ora fosse, il sole era già alto. “Vieni. Sta morendo”, disse neutra, constatando un’evidenza per me ancora incomprensibile. Non ci fu in quell’adunata né allarme, né compassione. Era il primo passo di un meccanico cerimoniale, cui avrei dovuto essere preparato. Ma non era così e i modi, la voce, la presenza stessa di quella donna mi urtarono. Salii le scale di corsa, accigliato. Entrai nella camera dello zio. La luce del giorno, sfacciata, la denudava senza pudore. Lo zio era ancora vivo. Respirava. La testa reclinata all’indietro, la bocca aperta, scomposta, il busto rannicchiato in una spessa maglia di lana, sostenuto dai cuscini. In testa una berretta irriverente. Le palpebre disseccate non arginavano il vitreo degli occhi. Teneva le mani incrociate sul ventre in una posa imposta. Le carezzai, le sciolsi. Erano rigide e fredde, orrendamente. Non gli appartenevano più. Ma respirava ancora, affannosamente. Non sapevo cosa fare. Dietro di me, vidi quella donna sorridere ostinata. Il suo sguardo diceva che non c’era nulla da fare. Ma come?!, volevo urlare, è ancora vivo. Chiamiamo il dottore, pensai. Fu allora che udii quel suono. Inspiegabile, inumano. Parve venire dalle interiora della casa. Mi voltai. Un rumoroso gorgoglio aveva sostituito il respiro di mio zio. Mi soffermai sul suo volto scavato e ceruleo, posseduto da quel suono sproporzionato e osceno che gli ribolliva in gola. Lo udii affogare in un lungo rantolo indecente, al termine del quale la donna mi si mise davanti. Con una mano gli serrò la bocca, udii sbattere la dentiera. Poi frugò in una tasca e ne trasse una pezza che arrotolò e appoggiò fra mento e sterno, a mo’ di puntello. Mi guardò interrogativa. Indietreggiai di un passo. Non lo toccai. Lei gli passò una mano sugli occhi e mi guardò di nuovo. Mi allontanai, uscii dalla stanza. Mi affacciai a una finestra. Da fuori mi giunse il rumoreggiare del traffico. Era una calda mattina d’inizio dicembre. Mio zio era morto. La vita scorreva liquida.

Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo recupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza dell’impossibilità di dire: -Io-. L’ausilio dell’arte medica, lenimento e pezzuole, dissimulò in parte l’orrore. Si udiva il residuo d’acqua ed alcool delle pezzuole strizzate, ricadere gocciolando in una bacinella ed alle stecche della persiana già l’alba. Il gallo improvvisamente la suscitò dai monti lontani perentorio ed ignaro come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita.

[Carlo Emilio Gadda, “La cognizione del dolore”]