Lo chalet

di Giada Ventura

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Ogni tanto accade questa cosa della contaminazione. Che poi non è proprio così che funziona. Nessuno ispira nessuno, nessuno suggerisce, nessuno raccoglie. Piuttosto ci sono persone, anime, storie, e quindi anche scritti, che si incontrano, a prescindere dallo spunto originante, da dove essi provengano.

Pubblico un bel racconto di Giada Ventura dal titolo “Lo chalet”, lo stesso del mio ultimo pezzo, col quale ha un trait d’union.

Parla di tristezza, di nostalgia, di vita passata, del vuoto che ha lasciato, e di tante altre cose.

La prosa di Giada, densa di ricerca e di significato, mi ha affascinato.

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Vorrei smettere di essere triste, di cercare le parole per tradurre, forse potrei dire trasformare oppure anche rendere comprensibile, un miscuglio di elementi emotivi che una sola parola, tristezza appunto, non può racchiudere. Ma non posso non essere triste. Voglio dire, non sono sempre triste ma spesso lo sono. Io sono così. La mia tristezza è un lenzuolo polveroso, che diventa polveroso. Come le lenzuola che ricoprivano i mobili di questa casa, stese in un tempo antico, e come potrei chiamarlo altrimenti? per evitare che la polvere si depositasse sulla credenza, sul divano, sui tavoli e sulle sedie. Tutto era ricoperto, come messo a riposo. La mia tristezza non mi fa riposare, a pensarci bene, no, non va affatto bene l’immagine del lenzuolo. E la polvere di solito con un soffio se ne va, si disperde. Ma per la mia tristezza non basta un soffio. Ci vuole il vento. Anzi una tempesta o un evento climatico estremo, per riallacciare i miei paragoni all’attualità, uno di quelli capaci di modificare il paesaggio. Così si potrebbe raccontare che le raffiche hanno abbattuto, scoperchiato, stracciato, divelto la tristezza. E poi è arrivato il sereno, che dovrebbe essere la felicità.
Un temporale effettivamente si è abbattuto, su questa casa. Un temporale di fine estate, breve e violento, e ha lasciato la sua traccia indelebile. Un fulmine ha colpito il pino cembro che mio nonno aveva piantato in giardino, quando era diventato ordinario di Botanica e si era trasferito in questa città senza montagne. Il fulmine ha spezzato la cima della pianta, condannandola. Ora non è che un tronco rinsecchito, questo pino cembro che era riuscito a crescere rigoglioso in un ambiente a cui non apparteneva. Il nonno lo aveva curato con mani esperte, come tutta questa casa, che aveva costruito con le sue mani, a immagine e somiglianza del maso in cui era nato.
La tristezza e la felicità. La felicità non può esistere senza il suo opposto. Come il bianco il nero? O come yin e yang? Due poli opposti che si attraggono o due poli che si respingono? O due stati che si compenetrano, e si allungano l’uno nell’altro, come spire, e si abbracciano? Mi domando se mio nonno qui sia stato mai davvero felice. Forse all’inizio sì, perché all’inizio era pieno di entusiasmo e intorno a questa casa si stendeva ancora la campagna, e dalle finestre poteva vedere il verde dei prati, e i campi che cambiavano colore a seconda delle stagioni. Poi sono arrivate nuove case, sono arrivati i palazzi. Li chiamava le montagne di cemento. Il paesaggio era cambiato, la natura era sparita, e la sua casa qualcuno lo aveva battezzato “Lo Chalet”, era diventata solo la bizzarria di uno strambo, osservata con curiosità e divertimento da chi ci passava accanto.
Adesso non ci sono più i gerani fioriti sui balconi e le tende ricamate alle finestre, molte travi di legno sarebbero da sostituire e i muri necessiterebbero una mano di vernice. Lo sguardo di quell’uomo che è appena passato davanti dice tutto. Questa casa è vecchia e decadente come la signora anziana che sta accompagnando, sorreggendola amorevolmente con un braccio. A questa casa manca l’amore di chi l’ha vissuta. Mancano la vita e gli abbracci. Sono solo muri abbandonati, condannati ad una apnea di sentimenti. I giochi sparsi dai miei figli sul terrazzino sono l’ombra opaca di un tempo passato, quando la casa era invasa dai nipoti. Correvamo scalzi gridando i nomi di piante e fiori, in latino, perché il nonno ci teneva che li imparassimo a memoria quei nomi buffi. Pinus Cembra. Picea abies. Acer rubrum. Alnus glutinosa.
La mia tristezza, dicevo. Una tristezza a frammenti. E i frammenti sono tenuti insieme da una forza invisibile. Forse è il magnetismo di questa stanza disadorna che li tiene incollati e non permette loro di sbriciolarsi. Li sento uniti in modo casuale: una tristezza sempre diversa, non esistono regole di composizione, essa ha più dimensioni. Qui la vedo capace di ripiegarsi su se stessa per nascondersi, mentre sorride strizzando l’occhio, per dire ehi ci sono, non ti puoi liberare di me. Non ti puoi liberare dei ricordi. Il filo elettrico che pende dal soffitto, la sua ombra proiettata sulla parete. Un lampadario che non esiste più. E la luce del tramonto che sta colorando il cielo. Felicità?
La tristezza. Non è proprio tristezza. Esagero forse? L’ho chiamata così per semplificare. In genere semplificare aiuta a non farsi inghiottire da qualcosa che quando apre troppo le fauci diventa un problema. Un sentimento affamato, ingordo, di tempo, desideroso di fare da cifra stilistica dell’esistenza. La tristezza è, per fare un esempio, noia. Disincanto. Rassegnazione a volte. Oppure nostalgia, che ha quella dignità cristallina conferita dalla sua etimologia. Il dolore del ritorno. Il ripercorrere con la memoria un istante, inciso nei neuroni, immerso nella corteccia cerebrale, un istante di vissuto, che è divenuto una sorta di romanzo d’appendice, a furia di sfogliarlo quando sei alla ricerca di un pensiero accomodante in cui rifugiarti. Un pensiero consolatorio, perché trattasi di un ricordo formidabile, che ha acquisito potenza anno dopo anno, ad ogni ritorno ha ricaricato la sua batteria al cento per cento. La spina di Rosa Canina conficcata nella mano e il nonno che la toglie con pazienza mentre lo osservo in silenzio, senza versare una lacrima. I miei cugini intorno che trattengono il fiato. L’applauso finale.
La strada per arrivare qui è un’altra nostalgia perfetta. Ci sono strade che si percorrono per un certo periodo di tempo, magari per raggiungere qualcuno, poi c’è un’ultima volta (e non sai mai che quella è l’ultima volta) e poi passano anni prima che ti ci ritrovi. E fatichi a riconoscere il percorso. La vegetazione è cambiata. I negozi non sono più gli stessi. Hanno sostituito un semaforo con un rondò. Tu stessa non guidi più la stessa automobile. O forse, pensandoci bene, non avevo mai guidato io per arrivare fin qui. No, non sono triste. Non proprio. Questa è una nostalgia con cui si può fare la pace. La lascio andare un momento prima che abbia terminato la sua missione. La libero, prima che mi scoppi tra le dita, come si fa con i palloncini gonfiati ad elio. Apro la mano che tiene il cordino e la nostalgia vola via, leggerissima. La vedo allontanarsi da me, sempre più piccola, sempre meno visibile. Fino a quando non si confonde con il cielo. Con il viso del nonno. Dentro questo tramonto che riesce a colorare anche questi palazzi grigi di una enrosadira urbana, come la definiva lui, che dalla nostalgia per le sue montagne non è mai guarito.
Dicevo del disincanto. Che cosa può avere a che fare un sentimento di liberazione con la tristezza? È semplice, il disincanto chiude il cerchio dello stato di grazia. Non è la disperazione del down, quando lo stato di grazia cambia nome e si mostra per quello che è: una illusione. Quando improvvisamente la gravità torna a farsi sentire e si smette di fluttuare giulivi nel giardino dell’Eden insieme alla chimera del momento, precipitando a terra, pesanti e ingrassati dalla potenza di sogni ormai infranti. Il disincanto è quando ti rialzi in piedi e, consapevole di esserci cascata, metti a dieta le emozioni. E la tristezza che gli fa da contorno sta proprio qui, nella consapevolezza che la libertà pura non esiste, ma che ci si può accontentare di un momento di liberazione. Un moto, un cambio di stato. Una nuova possibilità.
Domani verranno ad abbattere quello che resta del pino cembro. La casa è stata dichiarata inagibile e sarà demolita nei prossimi giorni. Rimetterla a posto ha un costo che non mi posso permettere. L’ho svuotata di quello che conteneva e ho chiuso tutto in un deposito. La mia tristezza no, non riesco a rinchiuderla dentro qualcosa. E’ radicata dentro di me come una pianta. E io la nutro, la annaffio e la curo, perché sa darmi frutti che nulla hanno di amaro, parole sempre diverse, con cui la scrivo e la racconto.

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Alla mia tristezza mancava una storia, alla tua donna mancava qualcosa che non sapeva definire.

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[Giada Ventura, 19/09/2022]