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Dopo qualche settimana, finalmente scendemmo al piano e il 28 ottobre, a notte avanzata, attraversammo il Piave.
Tutta la 1° Divisione d’Assalto era ammassata lungo il fiume, all’altezza della Nervesa. Noi eravamo di punta, dietro di noi un reggimento di Bersaglieri. Ci traghettavano i soldati del genio pontieri su barconi di lamiera metallica.
Passò la prima, poi la seconda compagnia, infine la terza, alla quale appartenevo. Non fummo ostacolati dal fuoco nemico e non subimmo perdite.
Mentre stavamo ancora prendendo posizione, all’improvviso ci arrivò l’ordine, anzi, il contrordine di ritornare dall’altra parte del fiume. Passarono la prima e la seconda compagnia; la terza fu sorpresa dal chiarore del giorno e rimase sul greto del Piave, sulla sponda nemica. Alle spalle avevamo il fiume in piena, di fronte le postazioni austriache.
L’offensiva da noi avviata era stata sospesa perché improvvise piogge avevano provocato la piena del fiume e, d’altra parte, nostre truppe più a monte avevano già stabilito una testa di ponte in territorio nemico, per cui non era più indispensabile gettarne una seconda.
Venne la luce del giorno e fummo subito sottoposti al fuoco di fucileria, per la verità piuttosto sporadica, del nemico. La nostra linea di difesa naturale era costituita dal riparo che offriva, almeno per il fuoco di fucileria, il dislivello fra il greto del fiume ed i campi coltivati confinanti che, nel punto in cui ci trovavamo, era piuttosto marcato. Io mi ero subito costruito una specie di nicchia per ripararmi dalle fucilate, scavando una buca e spostando e ammucchiando i sassi davanti a me.
Ad un certo punto, fui invitato dal comandante della compagnia, il tenente medaglia d’oro Sabatini, ad unirmi a lui e al portaordini, raggiungendoli nella loro postazione, che era certamente migliore, dato che in quel punto il dislivello fra il greto e il campo coltivato era molto più alto. Non dovevamo temere il fuoco dell’artiglieria perché eravamo a ridosso delle difese nemiche e non avrebbero sparato per non rischiare di colpire i propri soldati.
Prevedibilmente la situazione si sarebbe risolta durante la notte. Noi, infatti, alla luce del giorno non avevamo la possibilità di ritirarci e se il nemico ci avesse attaccato, si sarebbe esposto a gravi perdite con il solo fuoco della nostra fucileria. Così la giornata trascorse calma, anche se rimanemmo senza approvvigionamenti.
Venne a sorvolarci un nostro aereo, portava il numero 78. Mi sarei aspettato che buttasse giù delle cibarie, ma si limitò a dei cenni di saluto, almeno così li interpretai (seppi in seguito, a guerra finita, che l’aereo 78 era pilotato dal sergente Salamina). Appena venne buio, il nemico si fece vivo con tutte le sue forze.
Eravamo schierati su una sola linea, vulnerabile in ogni punto, ma specialmente alle due estremità. La mia posizione era abbastanza centrale, perciò difficile da aggirare, e non dovevamo temere attacchi alle spalle. Attaccandoci frontalmente il nemico non si sarebbe esposto che a gravi perdite.
Era l’ala sinistra del nostro schieramento quella sottoposta a maggiore pressione, con continui attacchi da parte del nemico. Ebbi l’impressione che fossero attacchi di disturbo, soprattutto con l’intenzione di farci consumare munizioni, di cui non potevamo fare rifornimento. Sulla sinistra dello schieramento c’erano i sottotenenti Ceridoni e Giordana, i quali dopo qualche attacco vennero dal tenente Sabatini a proporgli di arrenderci. Sabatini rifiutò.
Alla fine fu la mancanza di munizioni a costringerci alla resa. Nella nostra postazione avevamo una mitragliatrice-pistola che a un certo punto di inceppò a causa della sabbia, le munizioni dei moschetti erano esaurite.
Presa la decisione della resa, all’avvicinarsi dei soldati nemici, scappai dalla parte opposta, verso il Piave, con l’intenzione di attraversarlo a nuoto; come seppi dopo, in quattro ci riuscirono. Avevo fatto poca strada quando incappai in una pattuglia nemica di sei uomini che mi costrinsero a fare dietro front. Per fortuna non mi spararono addosso; l’avrebbero fatto certamente, se avessi insistito a correre nella direzione del fiume. Risalii sul campo e mi aggregai ai compagni catturati: un gruppo di una cinquantina di prigionieri.
Un soldato nemico, per pura malvagità, buttò contro di noi una bomba a carbone, che ha schegge di latta, facendo diversi feriti. Me ne procurai una anch’io, al polso. Da quel momento la mia situazione cambiò: ero un prigioniero.
Al mattino, appena fu chiaro, ci contammo: eravamo rimasti in quarantasette. Avevamo passato il Piave in trecento.
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(Continua)
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[dal memoire sulla Grande Guerra di Virgilio Giorgi]
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Immagini e fonti tratte dal web