Un racconto africano

Prima parte

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Il pick-up attendeva sotto l’albergo. Dalla finestra delle scale vidi un uomo bianco, alto, capelli brizzolati, taglio militare, occhiali larghi, scuri. Con un piede sul predellino, fumava una sigaretta con una mano sulla cintura; la sua posa aveva un che di hollywoodiano. Quando raggiunsi l’auto, Darwish stava già discutendo di tappe e tragitto con l’idea di guadagnare tempo. Goran, che anche da vicino sembrava un incrocio fra Kevin Costner e John Wayne, con fare affabile ma fermo, quasi paterno, gli spiegava che in Africa Centrale non si possono fare tabelle di marcia “troppo precise”. Dopo qualche scambio di opinioni, l’argomento fu chiuso con una sonora pacca sulla spalla di Darwish, il mio giovane, ma determinato collega di origine libanese. Vedremo strada facendo, chiosò Goran ridacchiando. Era il preludio a una serie di lezioni sugli irrinunciabili espedienti e quella necessaria forma di fatalismo, essenziali per riuscire a vivere e lavorare in quella porzione di mondo, che ci sarebbero state impartite durante il viaggio. Freelance assoldato da un’impresa di costruzioni svizzera, Goran era nostro partner e mentore nell’iniziativa commerciale che stavamo intraprendendo. Da più di dieci anni lavorava fra Kigali, Kampala e Nairobi come site manager o site engineer per succursali o spinoff di aziende europee. Aveva famiglia in Serbia, moglie e due figli, che vedeva di rado, due o tre volte all’anno; il più grande, ripeteva orgoglioso, era una promessa del calcio.

Sistemati i bagagli, John, l’autista, salì a bordo e mise in moto. Nero, cappellino da baseball calcato sulla fronte, occhi invisibili dietro gli occhiali da sole, non apriva mai bocca e se lo faceva, rivolgendosi esclusivamente a Goran con voce roca, percettibile appena, significava che c’era qualche guaio in arrivo. Diversamente, muoveva lentamente il capo, ti fissava in silenzio e, al più, accennava un ambiguo sorriso. Come quando, poco dopo, lasciata Kampala, mentre viaggiavamo a tutta birra su una strada libera, larga e asfaltata, l’omologa di una delle nostre autostrade, il furgone fece letteralmente un balzo, riatterrando con frastuono di ferraglia e valigie che rimbalzano nel cassone. Afferrai la maniglia del portellone e mi voltai a guardare cosa avessimo appena “urtato”. Un coccodrillo stava raggiungendo il bordo della carreggiata di gran carriera; feci appena a tempo a vedere le zampe posteriori e la coda che scivolava serpeggiando sull’asfalto prima che scomparisse nell’erba. Esterrefatto, gridai: Un coccodrillo! Siamo passati sopra a un coccodrillo! Goran non commentò, né si voltò a guardare. Nello specchietto retrovisore, una grinza sulla guancia di John alluse a una specie di sorriso, di scherno o compassione, non mi fu dato capire. Nient’altro. John non staccò lo sguardo dalla strada davanti a sé, né il piede dall’acceleratore; l’aria continuò a entrare turbolenta dai finestrini abbassati e Goran a fumare la sua sigaretta. Increduli, Darwish e io ci scambiamo uno sguardo eccitato: Benvenuti in Uganda.

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[12/05/2024]

Il me fait chier votre Shubert

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Me lo sparo in cuffia. Lo so, il verbo “sparare” non s’addice a un quartetto d’archi, ma tant’è. Me lo sparo in cuffia, perché quei due mi hanno rotto i coglioni: ogni volta che metto un po’ di musica, iniziano a ridere. Prima lei, poi lui, che le va dietro come un cagnolino, dandole corda. Non hanno i miei stessi gusti, è normale, apparteniamo a tre generazioni diverse, quindici anni l’una dall’altra. Si può ridere di me, ma non della musica che ascolto. Shubert, Quartetto n. 15 in Sol maggiore.

Chiudo gli occhi e m’immergo nell’attacco, accordi in crescendo, soffocati all’ultimo. Presagio, mistero. Qualcosa che arriverà, inesorabile, nonostante l’allegro passo di danza con cui incalza il tema conduttore. Non l’hai ancora capito, ma stai già vivendo il continuo alternarsi di emozioni e stati d’animo contrastanti che ti accompagnerà fino alla fine. In dieci battute le variazioni e l’inventiva di un ventennio di Pink Floyd. Poi è il mondo di oggi ad andar veloce. Baggianate. Siamo diventati tutti sordi. Alla bellezza. Del rumore e dello scempio che insidiano le mie pause pranzo al bar non parlo nemmeno. Tanto varrebbe infilarsi dei tappi nelle orecchie, mettersi il paraocchi e concentrarsi sulla propria masticazione, sarebbe molto più istruttivo.

Anche le mie cuffie hanno i loro pregi: mi tirano fuori da qui. Le calzo, clicco sul play e non li sento più ridere, né parlare; i miei colleghi d’ufficio e quelli sul corridoio. Mi accorgo che qualcuno s’affaccia e mi fissa, ma lo ignoro, non alzo volutamente lo sguardo dal monitor, finché non se ne va pensandomi impegnato in qualche videoconferenza. Alzo un po’ il volume e non sento più squillare nemmeno il telefono; che comunque scelgo io a chi e quando rispondere. Sono isolato, libero. Non più seduto a questa scrivania stanca, a battere su una tastiera incrostata di polvere, briciole e caffè, in mezzo alle scartoffie.

Eh, ma la musica pop, il rythm&blues! direbbe lei. Gli intramontabili anni ottanta! Rod Stewart, Elton John, … e via discorrendo. Per essere nata dopo l’uscita dei loro più grandi successi, ne sa fin troppo, questo glielo riconosco. Come ritrovo in ciò che ascolta la stessa “energia positiva”, lo stesso sorriso, che a volte mi sembra un po’ forzato, con cui vuol prendere per il verso giusto ogni nuova giornata. La musica la sente, e bene, ma è come se avesse paura di attraversarne le ombre, di andare in profondità. Di perdersi. Proprio ieri sera, di ritorno dalla palestra, accompagnavo le curve tamburellando il volante e ondeggiando ipnoticamente la testa sulle note di Do ya think I’m sexy? Non sono un cervellotico ameba. Quando ci sta, ci sta. Tutto: anche il nasone e il suo assurdo taglio di capelli. Ma che me ne faccio di una ritmica ballata, sempre uguale a se stessa, come un tiro di sigaretta. Non è la vita che voglio. Chi dice che non si possa trovare trasporto, sensualità, ritmo, percussione, adrenalina in quartetto d’archi? Il più grande musicista rock per me? Ludwig van. La più grande anima rock che conosca. Alex la sapeva lunga. *

Mi concentro sul mio Shubert, che va più veloce di me e della mia capacità di cogliere le sfumature e il mistero del suo spartito. Per un attimo provo a capire, a “sentire”. Mi affascina e mi seduce, invitandomi in un altrove che credo sublime e salvifico. Il rischio è proprio quello di non farcela, di non riuscire a volare, di rimanere a terra, umiliato e deluso al pensiero di non poterlo mai fare. E mi torna in mente un film che vidi tanti anni fa, quand’ero ancora studente. Non ricordo il titolo e a dire il vero non lo voglio sapere. Oggi potrei fare una breve ricerca in internet e riscrivere il ricordo, parziale e falsato, anche solo dal fatto di averlo visto in francese. È mio e basta. Me lo tengo così, ci sono affezionato. Le “verità di memoria” hanno un grande valore, ormai, sono merce rara. Di questi tempi si ha una facilità estrema nel riscrivere le storie, anche quelle personali. Ma veniamo al film. Il protagonista, un abbiente borghese in cerca di nuovi stimoli in amore, interpretato da un fascinoso Depardieu nel pieno dei suoi migliori anni, tradisce la bella moglie con una donna dimessa, dall’aspetto scialbo, tracagnotta, una qualsiasi impiegata conosciuta per caso, per niente elegante o attraente. Nessuno Basic Instinct, per intenderci, né l’ossessione possessiva del protagonista de La noia per la giovane dalle forme generose che pratica il sesso con disinvoltura e distacco così disarmanti da fargli perdere il senno. Eppure anche in lui scatta una molla, un’ostinazione. Vuol dimostrare qualcosa prima di tutto a se stesso. Il sesso e la ricerca del piacere fra i due diventa un percorso complesso e impegnativo, una lenta e faticosa conquista, in grado di dargli un nuovo significato. Fanno l’amore per ore, interi pomeriggi in cui i loro corpi si sovrappongono e si fondono, abbandonati su divani, moquette, letti sfatti di albergo, in incontri improvvisati. Ricordo una lunga scena di discussioni, seduzione e amoreggiamento, girata in metropolitana. Devo aver compreso meno della metà dei loro dialoghi. Tuttavia, sono convinto che ci fosse sentimento, puro, oltre la caparbietà di dimostrare a se stessi che quella relazione fosse possibile.

La colonna sonora era stupenda. Tanto, come a volte succede, da essere protagonista a sua volta. Shubert e i suoi archi la facevano da padrone. La musica era l’amore, la perfezione, l’utopia. Era ciò che mancava, ciò che si stava cercando.

Le cose, però, non vanno a buon fine, né avrebbero dovuto, in fondo. Come prevedibile, Gérard torna nella sua bella casa, dalla sua bella moglie, algida ed elegante. Ma prima di farlo, si toglie uno sfizio, in una scena che resterà per sempre impressa nella mia mente. È notte e sta camminando per strada; deluso, svuotato, arreso, sta facendo ritorno alla sua vita di prima. I suoi passi risuonano nel silenzio. La camera lo riprende dall’alto di un punto sopra di lui, come uno di quei lampioni in mezzeria, appesi ai fili che vanno da un lato all’altro della strada. Lui sfila via; allontanandosi, la sua figura rimpicciolisce. A un tratto, però, si ferma, si volta e torna sui suoi passi, riavvicinandosi. Giunto a pochi metri, alza la testa e guarda dritto in camera, furibondo. Alza un dito e grida: Il me fait chier votre Shubert!! Vous comprenez? Il me fait chier!!

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* Alex DeLarge, protagonista di “Arancia meccanica”, Anthony Burgess, 1962.

[05/05/2024]

Una poesia di Antonio Bianchetti

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Il 14 aprile ci ha lasciati prematuramente Antonio Bianchetti. Una persona, un poeta, un appassionato cultore dell’arte in tutte le sue forme e contaminazioni, che ho avuto modo di incontrare almeno una volta di persona, abbattendo le distanze della frequentazione nel web, dando così un volto alla sua presenza, al suo pensiero. Non mi sento titolato a parlare di lui. Posso solo dire che mancheranno, anche qui, la sua animosa e scrupolosa ricerca, la sua profondità, la sua capacità di alzarsi in volo, la sua generosità, il suo sorriso.

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PIOGGIA GELIDA

Lamento di un pupazzo di neve

Non posso che assimilare torture
mentre il tempo spacca il silenzio
luce divelta dalle urla
paragoni che si intrecciano
sul viso sfatto
lacerato dai tagli delle chiacchiere
come se il passato
fosse solo un’invenzione

La decomposizione delle forme
aumentava le paure
che più profonde ho colto

trasfigurate come sagome di facce
nei luoghi aperti dell’immobilità

nei deserti chiusi dove ognuno
ha una colpa da nascondere
Ma
è alle sue origini
che voglio tornare
degustando la vertigine che affiora
e che ormai
troppo spazio ha aperto
Eppure
ogni mattina mi adagio
a rintracciare echi
di inganni e di massacri

a sciogliere
insieme alla mia pelle
voci confuse e note
e bombe termonucleari
dentro alla chiusura di una palpebra
Tra tutte le voci del giorno
lento svanirà
il solitario tormento

fioco monologo perduto nell’alba
pronto a lacerare la prossima luna

grido mannaro
che ripopola gli squarci
come se l’acqua fosse
un rigagnolo di sangue

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[da “Esilio di sicurezza”, di A. Bianchetti, C. Stenardi, M. Isola, 2008]

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Giovanni senza terra

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Rivoluzione industriale, involuzione tecnologica.

Quando tutto ebbe inizio?

Era forse scritto in catene intrecciate e invisibili,

le stesse che un rigurgito biologico può trasformare in concime,

che fossimo noi il cancro di questo pianeta?

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Un aratore senza campo, cavaliere appiedato,

guida e cavalca macchinari

e odora di natura, grasso e acciaio,

come altri odorano di cavallo.

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I tramonti, sopra i tetti senza frutti,

gli rivelano, attraverso le cortine di fumo

il tempo del domani e portano una gioia

nelle officine dove sogna i suoi raccolti.

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Nel frattempo un’altra idea della natura,

riflessa dalle macchine, dalla gente,

cresce nella sua mente fino a fargli sentire

il diritto a una proprietà senza confini.

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[“Giovanni Senzaterra”, Edouard Roditi, in Magazine of Verse, Giugno 1940, trad. G. Cerrai]

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Immagine: Gianluca Fretti