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Quando morirono i miei nonni, ero piccolo e distante. Quando toccò alle nonne, ero ancora giovane e il dolore non aveva bocca, né orecchie, né pelle. Solo occhi. La mia mente una macchina fotografica.
Poi è arrivata la paura.
La paura di quel dolore incommensurabile, inavvicinabile. Di non esserne all’altezza. Di non avere neanche le parole.
Ma quando li ho visti arrivare, alla spicciolata, a gruppetti, con tutta la loro insicurezza, il loro affetto, la loro pietà, il loro dolore, la loro voglia di dire, chiedere, ascoltare…
Mi ha fatto stare bene.
Mi ha consolato stringere la mano a degli sconosciuti, così come riabbracciare i vecchi amici. Raccontavo e piangevo, con tutti.
Respiravo.
Abbiamo anche riso, parlato di lui, di noi. Del passato, del lavoro: così, come se niente fosse.
A volte lo guardavo per vedere se assentiva, l’espressione che faceva.
All’inizio ho anche cercato la sua voce.
Era in una bara ed era fra noi.
Se n’era andato ed era lì con noi.
E noi eravamo lì
grazie a lui.
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Ma se non avrò lasciato nulla
non un segno, un ricordo
una parola, un lamento
un dolore
tutto questo non potrà accadere.
Non verrete
non vedrete la mia tomba
il mio volto da estinto.
Non vi darete la mano
non vi abbraccerete.
Non saprete, perché non ve lo diranno.
Se così andranno le cose
sarà stato tutto inutile.
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