
“Un romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato.”
[Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Trad. Giuseppe Dierna, Adelphi Ed.]
“Un romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato.”
[Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Trad. Giuseppe Dierna, Adelphi Ed.]
Quando scende dal treno, Robert ha voglia di camminare. Il bookstore dista circa un quarto d’ora, ma è in anticipo e decide di passare prima in hotel per lasciare la valigia e cambiarsi. Anche questa volta lui e Beth alloggiano in due alberghi diversi. Si incontreranno alla presentazione. Non si vedono spesso. Si incrociano negli uffici della loro casa editrice, alle presentazioni dei loro libri, alle fiere e in qualche altra rara occasione. C’è sempre qualcuno fra loro. L’editor, il moderatore di turno, gli altri partecipanti all’evento. I lettori. Si sono abituati alla presenza costante di un filtro nelle loro comunicazioni. Si scrivono, lo fanno per mestiere, ma le cose vere se le dicono attraverso i loro personaggi.
Arrivato in hotel, Robert fa check-in e gli consegnano un pacchetto. Lo apre appena entrato in camera. E’ un libro, Rimini, di Pier Vittorio Tondelli, uno scrittore italiano di cui aveva già sentito parlare. All’interno c’è un foglietto: “Alberto non era solo un uomo, ma tutti gli uomini di questa terra; e lei, Milvia, tutta la dolcezza recettiva e femminea di questo mondo“(*). Avresti potuto scriverla tu questa storia. L’avresti intitolata Jazz. Firmato, Beth.
La camera è luminosa e la grande finestra dà su un terrazzino vista oceano. E’ uno dei pochi hotel aperti fuori stagione, camere anonime dai colori tenui, grigi e beige. Nella luce dorata del tramonto le pareti sembrano quelle di un dipinto di Hopper. Prende due grucce dall’armadio, vi appende la camicia e la giacca sperando che perdano qualche piega, spalanca la finestra e lascia entrare il tiepido refolo di quella calda giornata d’ottobre. Si sdraia sul letto. E’ teso, dalla mattina, a dire il vero è così da qualche giorno. Fa fatica a prendere sonno, è costantemente eccitato, inquieto, non sa cosa farci. Conosce la ragione di quello stato, che non osa definire disagio, sa che passerà, che non è più tempo per certe cose, eppure il fremito che gli si muove nello stomaco non accenna a cessare.
Accartoccia un pacchetto vuoto di sigarette e ne cerca un altro in valigia. Ha bisogno di parlare con qualcuno, pensa, vuotare il sacco. Prende il cellulare e attende per una lunga serie di squilli.
– Ti disturbo? – Chiede prima che Beth abbia il tempo di rispondere, Robert sa quanto detesti il telefono.
– No. Mi stavo asciugando i capelli.
– Ok, so quanto sia importante per te, – sorride Robert.
– Oggi ne farei volentieri a meno. L’aria di mare li rende più ribelli del solito. Vorrà dire che lo sarò anch’io, – sentenzia Beth.
– Cosa?
– Più ribelle del solito.
– Sì, certo -. Robert tira una boccata e raggiunge il terrazzino. – Vedi l’oceano dalla tua stanza?, chiede.
– Certo, risponde Beth. Ho una camera con vista niente male.
– E il molo, riesci a vedere anche quello?
– Sì è sulla destra rispetto a dove mi trovo.
– Bene, per me a sinistra. Allora guarda in direzione del molo. Ho bisogno di un punto fermo per cominciare.
Beth si avvicina lentamente alla finestra e sposta la tenda con una mano. Ha capito dal tono della sua voce che Robert non ha intenzione di giocare. Vede il molo e rimane qualche secondo a fissarlo in silenzio, come se dovesse riconoscere qualcosa.
– Sono sull’estremità, Beth, – riprende Robert, serio.
– OK, Robert, sei su quel molo…, scandisce piano Beth.
– E davanti ho il mare in tempesta. Devo decidere se tornare indietro, o gettarmici dentro.
– Che sta succedendo Robert?
– Una serie di cose…
Beth rovista nella borsetta, estrae la tabacchiera, annusa un mucchietto di trinciato e lo mette in bocca.
– Va bene. Racconta, – dice.
– Stai masticando tabacco? – La rimprovera Robert. – Non avevi abbandonato quel vizio odioso?.
– Non si smette mai veramente, lo sai meglio di me. Con niente.
– Sì, hai ragione.
Robert riflette in silenzio.
– La mia relazione è in crisi, – dice dopo un momento. Voglio dire… C’è affetto, c’è amicizia, c’è conoscenza reciproca, quella fin troppo. Sento di volerle bene, davvero. E poi Grace ha bisogno di protezione, ha bisogno di me. E io ho bisogno di darle quello che mi chiede, perché mi fa sentire importante, necessario. Ma…
– Ma, – gli fa eco Beth.
– Tu sai bene come funziona dentro di me, tu sai meglio di me quello che intendo, quello che voglio. Siamo ciò che leggiamo, ciò che scriviamo. E tu mi leggi, sai leggermi.
– Capisco benissimo, Robert, – prosegue Beth, – sono discorsi che facciamo dal primo giorno che ci conosciamo, da quando abbiamo iniziato a leggerci, a scriverci. Da quando scriviamo insieme. Dove vuoi arrivare? – Chiede spazientita.
– Non c’è amore, Beth. Manca quell’amore. E non riesco a sentirmi in colpa. Ho voglia di vivere. Di amare, liberamente. Quando ho capito, quando ho saputo con certezza che un’altra donna mi cercava, che mi desiderava, beh, io l’ho accolta, immediatamente. L’ho presa. L’ho fatto come fosse l’unica cosa che mi restasse da fare nella vita. Senza farmi domande…
– Ehi, ehi, ehi, ferma tutto, – Beth lo interrompe bruscamente. – Che stai facendo Bob? Ti stai confessando? Non provarci nemmeno, io non do assoluzioni.
– Lo so, lo so, Beth…. E’ che…
– Lo abbiamo fatto anche noi Robert, ricordi? Lo abbiamo fatto, eravamo io e te.
– Sì, in altri corpi.
– Eravamo Jay e Leo, gli amanti diversi, in lotta con il pregiudizio, ma anche Frank e Janette, che convivono con le ombre del loro passato…
– Ci siamo cercati ovunque e in chiunque ancor prima di esserci visti o sfiorati. Ci siamo immaginati, disegnati, caratterizzati, – incalza Robert.
– Creati, conosciuti e amati attraverso la parola, le illusioni e i ricordi dei nostri personaggi. Il nostro primo libro è stata la nostra prima volta, – sussurra Beth.
– Le nostre prime volte, – aggiunge Robert.
– Il discorso fila, – riprende Beth, – quando vita e letteratura sono due binari che si avvicinano, ma non si incontrano mai. Come nell’inganno della prospettiva: sembra che si tocchino, ma in realtà non succede mai.
– Non si toccano, ma è come se lo facessero, – soggiunge Robert.
– Il fatto è che non è vita. Non è la vita.
– Ecco, vivere, Beth! Mi mancava!
– Hai vissuto? – Chiede Beth.
– Sì. – Risponde Robert e rimane senza parlare per qualche istante. I ricordi gli affollano la mente e sembra cercarne uno, il più bello, per condividerlo con Beth. Ma poi ci ripensa.
– Ormai mi sono abituato a stare in quell’altro mondo, su uno di quei tanti binari, capisci? – Dice.
– Tu hai scelto di viverci perché hai fatto la scelta emotivamente più vantaggiosa. Ma è un inganno. Ognuno di noi sceglie i propri inganni e decide se accettarli o meno. Essere fedeli a se stessi, alla propria natura, questo è il punto.
– Oggi le scriverei un sonetto, – dice Robert con trasporto. – Glielo scriverei sulla schiena.
– Dio, quanto ti sento così… Finalmente ti riconosco! Sei tu! – Esclama Beth. E ride di gusto: – Sappi che nessuno mi ha mai ispirato un sonetto.
– Essere fedeli a se stessi, ha ragione: è questa la chiave della felicità, – riprende Robert. – Vivere, esistere, pulsare, luccicare sulla battigia dopo una tempesta Shakespeariana…
– Calma, calma Robert. Chiariamo i termini del discorso. Fedeltà e felicità sono due cose distinte. Non puoi essere certo che restare fedele alla tua natura ti porti alla felicità. A meno che per te essere felice significhi proprio questo: essere fedele a te stesso.
– Certo, il ragionamento non fa una grinza -. Robert si accende un’altra sigaretta. – Tacitamente, passivamente se vuoi, credo di essermi sempre stato fedele. Nel bene e nel male, con le conseguenze che questo ha avuto sulla mia vita.
– Oh sì, anch’io lo sono stata. Ma nel corso degli anni ho maturato anche un certo istinto di sopravvivenza.
Robert sorride: – E’ sempre bello parlare con te, Beth. Mi fa sentire meglio. Tua figlia è una ragazza fortunata.
– Cazzo, Robert, cosa diavolo c’entra mi figlia? Io non sono tua madre!
– Facevo per dire, dai. Sei…, – non riesce a trattenere una risata, – sei un’amica! Sei la mia migliore amica!
– Vaffanculo Robert!
– Allora sei la mia amante! Va meglio così? Ti amo Beth, io ti amo!
– Pensi di avere avuto l’ultima parola, eh? – Beth sorride caustica. – Ti saluto mio caro. Ci vediamo tra un’oretta. E cerca di fare il gentiluomo, dopo la presentazione portami a mangiare del pesce e a bere del buon rum invecchiato, che la conversazione mi ha messo dello spirito giusto!
– Ok, ok, a dopo. Ah, devo ancora raccontarti i dettagli!
– Fatti una doccia fredda Robert! E non mettere la cravatta, sai che ti preferisco senza -. Sputa il bolo in una mano e lo depone nel posacenere sulla scrivania, fissa l’orizzonte incerto del mare, sovrastato da uno strato incombente di nuvole, annuisce gustandosi l’aroma ruvido del tabacco sul palato.
Alla presentazione del loro nuovo libro, Un’allergia dell’anima, Robert e Beth siedono davanti a un paio di microfoni ai lati opposti di una lunga asse di legno sostenuta da dei cavalletti e coperta da un panno scuro, in una sala conferenze improvvisata fra gli scaffali. Fra loro si trovano il responsabile del bookstore e un giornalista con fama di critico letterario, nella veste di moderatore. Di lato, in piedi accanto a un leggio, un attore cui è stata fornita una raccolta di passaggi da leggere al momento opportuno. Prima di cominciare, Robert fissa scettico la bottiglietta d’acqua e il bicchiere di plastica che si trovano accanto al microfono. Puzza di gin, si sente a distanza di metri, ma non se ne cura. Beth gli lancia un paio di occhiatacce eloquenti, cui lui non sa fare di meglio che rispondere con un sorriso tronfio, indicandole la camicia sbottonata sul collo. Beth scuote la testa rassegnata.
La serata procede regolarmente senza intoppi, né incidenti di sorta. Dai pochi interventi pertinenti del pubblico, Beth capisce che l’idea di creare un romanzo basato su una serie di episodi e di personaggi così ricca e variegata non è stata ben accolta, forse nemmeno compresa. Sembrano tutti insoddisfatti nella ricerca del protagonista assoluto, forse di un proprio alter ego. E sì che si sono prodigati nel crearne una pletora, uno più bello dell’altro, tutti delineati e finiti a tutto tondo. Nessuno si è accorto che è la città, Las Vegas, la vera protagonista del racconto, il caleidoscopio all’interno del quale si muovono, si agitano, precipitano e si rialzano tutti i personaggi.
Beth vorrebbe spiegare, approfondire, ma il moderatore alla sua destra le sfiora più volte il braccio con una mano, invitandola a desistere. Non è il pubblico adatto, sussurra. Robert è troppo accondiscendente. Il solito narcisista, pensa Beth, mentre lo osserva ringalluzzirsi rispondendo alle domande di un paio di studentesse che dicono di aver avuto la fortuna di prendere parte a un suo workshop di composizione.
Al termine dell’evento i due non riescono a sottrarsi a un invito a cena e all’irrimediabile spreco di tempo, fiato e parole che ne consegue, per il quale riescono quanto meno a consolarsi gustando alcune specialità di granchio della cucina locale, innaffiate da laute dosi di vino bianco.
Dopo cena insistono per rientrare a piedi in albergo e godono finalmente di un momento di solitudine. Imboccano la strada che costeggia la spiaggia e camminano lentamente. All’orizzonte si intravedono squarci di luce violacea, sembrano i lampi di una tempesta in arrivo. Raggiungono il molo e lo percorrono fino all’estremità. E’ quasi buio ormai e soffia un vento lieve e costante. Le onde crescono piano, come il respiro calmo e regolare dell’oceano.
Robert toglie dalla tasca del cappotto la bottiglia di bourbon che ha portato con sé, ne beve un sorso generoso e la porge a Beth. Un vero gentleman, commenta lei, il rumore delle onde copre le sue parole. Beve anche lei trattenendo per un istante il liquido in bocca, come per preparare la gola al lieve bruciore che seguirà. L’oscurità li avvolge come se li volesse inghiottire.
– Ma sì, – Robert rompe il silenzio – ce la siamo sfangata anche stavolta…
– Ho pensato a quello che mi hai raccontato, – interviene Beth.
Robert la guarda incuriosito.
– Non me lo aspettavo, – aggiunge Beth.
Robert la scruta in volto cercando di carpire una qualche forma di giudizio: – Ti ho delusa vero? – Chiede.
– No, perché? Non ho aspettative con te, Robert. Quindi, nessuna delusione. Sai, noi due in fondo non ci conosciamo. Il fatto di vivere ai lati opposti di questo Paese, ci ha aiutato a mantenere certe distanze.
– Sì, invece. Ti ho delusa. Perché anch’io faccio parte della categoria degli uomini che ragionano con l’uccello, ammettilo. Anche se non è proprio solo quello…
– Non lo è mai, Robert. Credi che non lo sappia?
– Non l’avrei fatto altrimenti, non ci sarei riuscito. Anche qui, mi conosci, – afferma Robert.
– Non avevamo mai parlato così, prima, – riflette Beth. – E dopo? Cosa succede dopo? – Chiede.
– Ecco. Il nodo. Quello che mi ha ridotto ulteriormente il sonno, che già era poco di suo…
– E’ libera? – Chiede Beth.
– E’ una collega di Grace…, – Robert cerca invano il suo sguardo. – Comunque sì, è libera. Da qualche settimana. Devo rivederla, Beth, devo capire che cosa è successo. A me, a lei. Quell’abbraccio… Mi mancava… Sentirmi desiderato, voluto. Mi sono commosso, sì mi sono commosso. Adesso devo capire cosa provo, ma prima di tutto devo capire cosa sono per Grace, indipendentemente da quanto è successo. Sono a un dunque e ci sono arrivato perché lo volevo, ne sono certo.
– Non ti invidio, – commenta Beth. – Sei di fronte a una scelta.
– Potrebbe essere una scopata di una sera, – riprende Robert. – Oppure un treno che mi porta con sé, senza portarmi in un posto preciso, ma lontano quanto basta da dove mi trovo. Ne ho già presi di questi treni in passato, almeno un paio.
– So anche questo Robert. Da quanti anni siete sposati tu e Grace? Due? Tre?
– Due anni e mezzo, Beth. Eri al nostro matrimonio, dovresti ricordartelo! – Sorride.
– Si può dire che sono stata testimone degli eventi, sì. Anche se non sono stata la testimone…
– Ancora con questa storia?!
– Era per stemperare, Bob. Tu dici che parlare con me ti conforta e ti fa stare meglio, ma la cosa non è reciproca: mi stai mettendo un po’ d’ansia.
– Ti dovrei parlare di Grace. Dovrei raccontarti tante cose. So che mi capiresti.
– Non voglio sapere nulla. Abbiamo fatto un patto tu ed io, ricordi? Parlami di questa… Come hai detto che si chiama?
– Non l’ho detto. Paula. La conosco appena, Beth. Potrei accorgermi in fretta che non è quella che penso, o che mi immagino. Ma non è questo il punto. Il punto è che non sono felice. Non sono abbastanza felice.
– Stare insieme è un compromesso, Bob, lo sai bene. Manca sempre qualcosa, fosse anche un brivido.
– Hai ragione… Sono un cazzone.
– Non credo tu sia un cazzone. Ma sono certa che la felicità perpetua non esiste, a meno che tu non sia un specie di asceta.
– Paula non è la felicità, questo lo so. Non lo è nemmeno Grace. Sono io che mi sto misurando con il mio livello di felicità e di infelicità.
– Quando sono sposata ad un certo punto divento infelice. Poi divorzio e mi sento di nuovo bene. Non so dirti se felice. Sono al quarto divorzio. Ti ho detto che sto uscendo con un tizio di Seattle, fa il musicista. Sono abbastanza felice, – ride.
– Non finirai mai di stupirmi, – esclama Robert sorpreso. – Potrei stare bene anche da solo, con una moderata dose di felicità, diciamo, – riprende dopo un momento.
– In un mondo ideale si dovrebbe stare insieme fino a che il quid che ci unisce non si esaurisce. Il quid banalmente è la passione, il desiderio di rivedersi. Il desiderio, punto. Dare il meglio e fermarsi prima di arrivare a dare il peggio. Quello che faccio io… – sorride e beve un sorso di whisky.
– Ecco appunto, con Grace siamo diventati quasi amici. Eros ha cambiato casa, ne siamo coscienti. Lei non mi riconosce come amante e nemmeno come il suo compagno, ma ha un’attrazione viscerale nei mie confronti, puramente fisica, nonostante continui a ripetermi che non sono il suo uomo.
– Ti ho già detto che non voglio sapere di te e Grace. Sono affari vostri. Non voglio offrirti la spalla per piangere, tanto meno consigliarti. Sei grande abbastanza Robert.
– Voglio solo farti capire perché sono arrivato al punto in cui devo e voglio prendere una decisione. Lei mi mostra un lato di sé ferino, privo di sensualità, che io non posso amare. Oggi, ad esempio, mi ha chiamato e non mi ha chiesto nulla, né del viaggio, né della presentazione, ha parlato solo di sé. Ha chiuso la telefonata dicendomi che era un peccato che non fossi a casa perché avrebbe avuto bisogno di una bella scopata.
– Non c’è che dire. Mi è tutto chiaro, – commenta Beth con sarcasmo.
– Lo so cosa stai per dire.
– Parole che non usciranno mai da questa bocca, – fa il gesto di cucirsi le labbra.
– Beth, lo so come sono fatto. Se sono così, se accetto questa situazione, se l’ho accettata fino adesso, la responsabilità è in gran parte anche mia.
– Tu devi imparare a farti conoscere.
Robert ammutolisce. – Lo so, – dice. – Non ne sono capace.
– Conoscersi è qualcosa di reciproco. E’ avvicinarsi. Addomesticarsi. Devo farti rileggere il Piccolo Principe? La storia della volpe, te la ricordi?
– Dovrei aprirmi. E’ il mio cazzo di problema, da sempre.
– Conosco il tuo meccanismo. E’ un processo che metto in atto anch’io, cosa credi. E’ semplice, immediato, per nulla faticoso. E’ naturale per te, come per me.
– Se non altro, però, questa storia di Paula mi ha fatto aprire gli occhi sulla mia crisi con Grace.
– Robert, non voglio dire che ti sei accontentato. Forse non siete fatti per stare insieme ma non perché fate qualcosa di sbagliato. Siete diversi e volete cose diverse e non riuscite a trovare un comun denominatore. E vi va bene così. Tu non sei facile da addomesticare perché bisogna capire come prenderti. Non cedi. Non ti affidi. Mettiti un po’ nei panni di Grace. Se anche fai un passo, l’istante dopo torni indietro di due. L’altro si spazientisce, smette di crederci. E tu ti arrocchi nei tuoi mutismi. Ti ci vedo, eccome se ti vedo. E questo non c’entra niente con lo scopare, dove forse ti lasci andare. Come dici tu stesso, alla fine non basta, non è quello che vuoi, quello che cerchi.
– Devo imparare a essere onesto con me stesso, – dice Robert annuendo.
– Beh, se non vuoi essere fedele, cerca almeno di essere onesto.
– Cazzo, Beth, posso baciarti?
– Vaffanculo.
– L’atmosfera è perfetta, – le porge di nuovo la bottiglia. – La serata sta decollando…
– Per finire direttamente in mare.
– Dai, anche solo per vedere che effetto ci fa!
– Devo ripetertelo un’altra volta, sei già alla terza, uomo che ragiona col glande? – replica Beth ridacchiando. – Tu non ti sei ancora ripreso. Non sei atterrato del tutto. Era evidente anche prima, al reading.
– Sei sicura?
– Che palle! – Beth sbuffa insofferente.
– E’ un no?
– Tu che dici?
(*) Da “Rimini”, di Pier Vittorio Tondelli
[S.G. e P.B., Estate 2019]
Immagine di copertina – web
un bravo scrittore
non è un filosofo
né un curatore.
ha in mano
bisturi da chirurgo
cosmetici da visagista.
gli dicono: falla più bella.
se ci si mette, però
la cosa gli prende la mano.
allora apre, scava
disseziona.
infine richiude, cuce
ricompone ciò che ha fatto a pezzi con cura.
e conclude: non c’è più niente da fare.
un bravo scrittore
va fino in fondo
dopo tanto imbrogliare
cincischiare invano
lui gira le carte
e vede
il disfacimento
l’annullamento
che mette tutti in fila per uno
sopra lo zero.
perché è solo da lì
che si vede
anche il più esile stelo.
[P.B., 12/4/2019]
“Cairn”, ometti segnavia – foto: Silvia G.
viaggio col silenzio
da prima di aprire gli occhi
la mia testa un finestrino oscurato
dietro il quale nessuno mi vede.
da sempre raccolgo briciole cadute
per un disallineamento congenito
che affastello in isterici segnavia
cui sorrido eccitato, soddisfatto
nel prodigio ossessivo
di un dolore risvegliato.
“Dovete lavorare sui vostri errori finché non sembrano fatti apposta. Capite?”
[R. Carver, da “Febbre”, racconto contenuto in “Cattedrale”, 1983 – Ed. Einaudi Super ET, 2014, Trad. R. Duranti]