Herman e la metafisica

[o delle imprese di Maciste nella valle dei farmacisti]

 

Non voglio fare una recensione o roba del genere, non ne sarei mai in grado. Voglio solo prendere qualche appunto e condividerlo con voi. Avete presente quei momenti in cui state leggendo e d’un tratto sorridete, rileggete più volte, assaporando, poi alzate gli occhi in cerca di qualcuno cui citare ad alta voce? Sono momenti preziosi nella lettura di un libro. Ecco, quello che sto leggendo – sono circa a metà – me ne sta regalando parecchi. Ed eccomi qui.

 

Isaac Bashevis Singer

NEMICI
Una storia d’amore

[Adelphi]

Nemici, una storia d'amore

 

Il protagonista della vicenda, Herman, un ebreo scampato alla Shoah e migrato a New York, conduce un’esistenza che, banalizzando brutalmente, definirei “incasinata”. Non credo di fargli un torto enorme usando questo aggettivo. Non è un tipo che si prende troppo sul serio. Meglio, è un fatalista. L’intelligenza non gli manca, tutt’altro, è che non mostra di volerla usare per opporsi o mutare il corso degli eventi. Né gli manca l’ironia nell’interpretarli, o un’invidiabile capacità nel darne un’interpretazione filosofica o metafisica. Religiosa no, quello no. Sia chiaro: Herman è figlio della sua gente, della sua cultura, della sua religione. E’ un ebreo, ma non osservante. Non è un miscredente. E’ un tiepido, uno di quelli che nel giorno del giudizio universale Dio vomiterà dalla propria bocca. Sa, conosce, non rinnega, ma nemmeno promuove. Non interpreta, non vive. La sua visione del mondo non passa attraverso la Bibbia, non di primo acchito quanto meno. Il Libro Sacro è dispensatore di saggezza e verità, ma la definizione di ogni cosa per Herman arriva quasi sempre da un’altra fonte, spesso, e in maniera acuta e puntuale, per bocca di un filosofo occidentale. Non a caso, prima della guerra, il giovane Herman si era iscritto, appunto, a filosofia.

Ed era qui che volevo arrivare. A quelle definizioni, quelle visioni. Così efficaci, incisive. Quelle che leggendo ti vien voglia di sottolineare.
Riporto solo qualche esempio, qualche chicca.

 

Herman e i figli. Ogni donna Herman incontri nella sua vita gli chiede un figlio. Lui, però, i bambini non li ama. Non ne vuole. Tanto da abbandonarli. Siamo ancora in Polonia, prima della guerra.

Tre anni dopo il matrimonio, Tamara diede alla luce una bambina – ovvero secondo Otto Weininger (che all’epoca secondo Herman era il filosofo più coerente) una creatura “priva di senso logico, priva di memoria, amorale, un mero recipiente di sesso”.

Masha. Il mio personaggio preferito. Sfaccettato, energico, affascinante, eccentrico, vulcanico, afflitto, nevrotico. Il suo ritratto dura interi capitoli, riempie spumeggianti dialoghi, si ramifica, avvolge tutto, si spinge in perverse immaginazioni sessuali, addirittura in grado di stuzzicare anche la pelle squamata del nostro Herman. Non basta un solo pensatore per inquadrarla, ma tant’è.

Herman sedeva in silenzio, preoccupato per la complessità della sua situazione. Si era trattenuto nel Bronx per tre giorni. Aveva telefonato a Jadwiga e le aveva detto di essersi dovuto recare a Baltimora dopo Filadelfia, e le aveva promesso che sarebbe rientrato quella sera. Ma non era sicuro che Masha l’avrebbe lasciato andare; avevano parlato di andare al cinema insieme. Lei faceva ricorso a qualunque espediente pur di tenerselo accanto, e si sforzava di rendergli le cose difficili. Il suo odio nei confronti di Jadwiga rasentava la follia. Se Herman aveva una macchia sui vestiti o alla sua giacca mancava un bottone, Masha accusava Jadwiga di trascurarlo, di vivere con lui solo per farsi mantenere. Agli occhi di Herman Masha era il miglior punto a favore della tesi di Schopenhaeur secondo cui l’intelligenza non è altro che una serva della volontà cieca.

Di seguito, invece, una saggia descrizione del “nostro” modus vivendi (siamo a NY negli anni ’60…).

Grazie a Dio, era troppo preso dai propri affari per ricordarsene. Il rabbino prendeva appunti, ma poi non li consultava mai. Nessuno degli antichi filosofi e pensatori avrebbe potuto prevedere un’epoca come quella: l’epoca della frenesia. Lavora in fretta, mangia in fretta, parla in fretta, addirittura muori in fretta. Forse la fretta era uno degli attributi divini. A giudicare dalla velocità del flusso elettromagnetico e dalla rapidità del moto delle galassie che si allontanano dal centro dell’universo,  si potrebbe concludere che Dio è impaziente.

Qui niente filosofia, almeno non in forma diretta, o di citazione. Ma una visione che nell’arte di caratterizzare il personaggio, in questo caso Masha, definirei geniale oltre che divertente.

Herman si riaddormentò. Anche i suoi sogni andavano di fretta, si incalzavano, spazzando via il principio d’identità, negavano le categorie della ragione. Sognò che mentre faceva l’amore con Masha la parte superiore del corpo di lei si era staccata da quella inferiore e di fronte a uno specchio gli rimproverava di fare sesso con una mezza donna. Aprì gli occhi.

Ecco come appare il nostro apatico e abitudinario Herman nel momento in cui viene a conoscenza di un’imprevedibile, ingombrante, imbarazzante novità…

“Vengo subito” ripeté Herman. Cercò di riagganciare, ma la cornetta gli cadde dalle mani e rimase a spenzolare all’estremità del filo. Gli parve di sentire ancora la voce di Abraham Nissen. Aprì la porta della cabina. Fissò il bianco che aveva di fronte, una donna seduta su uno sgabello sorseggiava una bibita con la cannuccia mentre un uomo le serviva dei biscotti. La donna stava civettando con il tizio e tutte le rughe della faccia imbellettata sorridevano imploranti. Herman rimise a posto la cornetta, uscì dalla cabina, e si avviò verso la porta.
Masha lo accusava spesso di essere un “robot” e in quel momento Herman era d’accordo con lei. I suoi sentimenti erano arginati da una diga e la sua mente calcolava con freddezza. L’appuntamento con Masha era alle quattro. A Jadwiga aveva promesso che sarebbe stato di ritorno a casa entro sera. Doveva ancora finire il manoscritto del rabbino. Era fermo sulla porta del drugstore, e i clienti che entravano e uscivano gli finivano addosso. Gli tornò in mente una definizione di meraviglia data da Spinoza: “Quando la mente resta immobile perché l’immaginazione di una singola cosa non ha alcuna connessione con le altre…”

E rieccolo dopo qualche ora, al termine di quella che si definirebbe “una lunga giornata”.

Herman non riusciva a ricordare una giornata estiva lunga come questa. Gli tornò in mente David Hume, secondo il quale non esisteva una prova logica del fatto che il giorno dopo il sole sarebbe sorto. In questo caso mancava la prova logica che il sole sarebbe tramontato.

 

Isaac Bashevis Singer

Isaac Bashevis Singer – web

 

Ecco. Credo che Singer sia stato un vero maestro nel caratterizzare i propri personaggi. Herman, Masha, Tamara… Il suo Nemici, una storia da’more è un libro estremamente ricco in tal senso, un vero forziere. I suoi personaggi sono tridimensionali, dotati di verve, invadono la scena, i loro dialoghi ti incuriosiscono, ti stupiscono, ti prendono. Non a livello di pancia, ma di testa. Una qualche forma di fredda, illuminata razionalità, mista a fatalismo e nichilismo da “sopravvissuti”, pervade i protagonisti del romanzo, dando spazio a stoccate di pungente, aspra ironia.

Leggo Nemici di Singer dopo aver letto Il mio nome è Asher Lev, di Chaim Potok, romanzo che ho amato profondamente. Voglio credere che entrambi siano stati scritti a New York, magari a Brooklyn, nello stesso periodo (uscirono entrambi nel 1972). Impossibile non cadere nella trappola del confronto di come venga descritta e raccontata la vita degli ebrei scampati alla Shoah e fuggiti negli Stati Uniti durante o dopo la seconda guerra mondiale; di come direttamente o indirettamente vengano descritti l’ebraismo, il chassidismo; di come con occhi e sentimenti diversi possano essere trascritte, fatte conoscere e incontrare determinati vissuti, determinate esperienze, apparentemente simili, ma profondamente diverse…
Ma di questo magari parleremo un’altra volta.

Resto qui

di Marco Balzano

Einaudi Ed.

 

“Non c’è tempo per fermarsi e dolersi di quello che è stato quando non c’eravamo. Andare avanti, come diceva Ma’, è l’unica direzione concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci.”

 

Resto qui - Marco Balzano

 

“La prima volta che sono stato a Curon Venosta (Graun im Vinschgau, in tedesco) è stato un giorno d’estate del 2014. Nel piazzale i pullman scaricavano visitatori, di fianco arrivavano e ripartivano frotte di motociclisti. C’è un pontile che è il luogo ideale per fotografarsi col campanile alle spalle. Lì la coda per farsi un selfie è sempre piuttosto lunga. Quella coda di gente armata di smartphone è stata l’unica immagine che sia riuscita a distrarmi dallo spettacolo del campanile sommerso e dell’acqua che nasconde i vecchi borghi di Resia e Curon. Non so trovare nulla che dimostri più chiaramente la violenza della storia.”

 

Campanile di Curon

 

Un libro che racconta con maestria e sentimento la storia “particolare” di due piccoli paesi alto-atesini, della loro gente, di un popolo non conosciuto dai più (io sono fra quelli). La cui vicenda è forse solo una piccola piega nella Storia dei grandi conflitti mondiali, difficilmente comprensibile da fuori. Come il perimetro ritorto di un confine fra tre nazioni, cucito sulle creste delle montagne, all’ombra del quale il senso di appartenenza alla propria terra, le proprie radici, la propria lingua, subiscono continue prevaricazioni, soprusi, umiliazioni e infine l’annientamento, in nome di una politica di trincea e di un famigerato progresso, quello che non guarda in faccia a nessuno.
Un bellissimo romanzo. Da leggere.

P.B.