A distanza di una settimana

da quello che è stato un piacevolissimo evento, mi permetto di fissarne memoria fra queste pagine.

E’ stata per me un’esperienza importante, emozionante e sorprendente.

Non mi aspettato tanto. Tanta accoglienza, tanta partecipazione, tanto scambio. Tanta umanità così vividamente espressa, senza timori o imbarazzi, a cuore aperto.

E’ stato un incontro fra persone attente, in ascolto, che si interrogano e si mettono in discussione nella ricerca del proprio equilibrio interiore, dentro e fuori la vita relazione. Persone in cerca di serenità, di felicità, di armonia. Della possibilità di esprimere al meglio la propria energia interiore, consapevoli che proprio nella condivisione e nella partecipazione – medium in questo anche l’atto creativo – essa possa trovare degna amplificazione e sublimazione.

Il pomeriggio passato insieme al Teatro Salvini di Pitigliano resterà per me un ricordo da incorniciare.

Un sentito grazie va al Centro Culturale Fortezza Orsini, che in occasione della ricorrenza del 40° della propria costituzione, ha organizzato – direi con passione e amore – l’incontro; al Comune di Pitigliano che a un anno esatto dalla prima intenzione l’ha reso possibile.

Grazie a Angela, che come pochi ha letto e attraversato i miei scritti, restituendomene un distillato degno di ben più di una riflessione. Mi ha fatto sentire profondamente capito; da quel momento il salotto del teatro è diventato quello di casa.

A Sabrina, che, facendole sue, ha dato voce alle mie essenziali, scarnificate parole, ai miei personaggi abbozzati, rendendoli vivi e tridimensionali, arricchiti dei colori dell’emozione e del sentimento.

A Mariapia, che mi vuole bene e ancora si interroga su chi io veramente sia.

A Stefania, che senza occupare la scena ha saputo comunicare allegria, leggerezza e sorriso.

Grazie a tutti coloro che mi hanno accompagnato in questa bella esperienza.

Riporto qui il commento di Angela Francardi, vero e proprio filo conduttore della lettura e della condivisione.

“CI VEDIAMO STASERA” DI PAOLO BERETTA

Terra d’ulivi edizioni

Buona sera a tutti e grazie per la disponibilità all’ascolto.

Per noi la presentazione di questo libro assume un significato particolare, in quanto rappresenta la possibilità di poter dare voce e lettura a libri, che indipendentemente dalla loro fama letteraria ci appaiono ben scritti e portatori di valori da noi condivisi. Pensiamo che ogni pagina scritta sia frutto di una elaborazione di pensiero e soprattutto di una lettura interpretativa dell’animo umano. E’ proprio seguendo questo filo di lettura, che ci fa estremamente piacere, come Centro Culturale, proporre l’avvio di un percorso, che ci permetta di approfondire profili utili a meglio comprendere, in un momento storico così complicato, l’Uomo e le sue problematiche. Senza fronzoli.

Vengo al libro di Paolo. Leggendolo ho sentito rappresentato un universo maschile e femminile che, nella loro apparente diversità, convergono in realtà verso un unico destino: la incapacità di prendere in mano la propria vita. L’Umano è rappresentato come una problematica aperta e i personaggi, anche se posti con leggerezza, parlano con il loro disagio esistenziale, che sembra non vedere luce e non trovare soluzione.

Molti personaggi come rappresentati sono in stato di fermo esistenziale e pur di non cambiare decidono di vivere vite non loro o addirittura parallele.

“Fuori è nebbia fitta, fa un freddo becco, roba che dopo qualche minuto ti si ghiacciano i capelli. Osservo Michael rollare faticosamente una sigaretta. Dopo pochi minuti, gli altri tornano dentro. Adèle e io, le mani in tasca e il fiato che ci lava la faccia, rimaniamo ancora un po’ ad ascoltare la neve che scricchiola sotto i nostri piedi.
Parliamo un po’, poi, puntuale, giunge la domanda che stavo aspettando, quella che ti fa ammettere, e te lo fa dire ad alta voce, che il tuo orologio è fermo, da anni ormai; la vita va avanti e tu no.
– Cosa cerchi Giulio? Cos’è che vuoi veramente nella vita?
Allora ti ascolti mentre dici che va tutto bene, che quello che hai è quello che vuoi, quello di cui hai bisogno; stai bene, questa è quella giusta, dici, vedrai, stavolta ci siamo. Ma mentre parli non la guardi negli occhi, perché in fondo lo sai, non è a lei che la stai raccontando. E allora cambi discorso.
– Giulio, non è difficile innamorarsi di te, – dice Adèle con quel suo accento francese e il tono che significa che è vero, che è normale, che non c’è niente di male.
– Solo che è un po’ pericoloso. Perché tu non sei finito. Perché tu non sei tu. Non ancora.”

[“Nella nebbia“]

“Viviamo vite parallele, da sempre. Pur di sopravvivere agli eventi, di non sovvertire l’ordine naturale delle cose. Pur di
sottrarci alla necessità di cambiare, di prendere posizione, di rinunciare a una parte di noi in favore di una responsabilità
maggiore. Siamo disposti a scinderci, spaccarci. In due, dieci, mille frammenti. Fra loro diversi e pur originanti da una stessa
radice. Prendi me. Iniziai presto l’apprendistato dell’arte della dissimulazione. Ancora bambino, creavo già le mie maschere e mi infilavo con sorprendente agilità nella faticosa giostra dei miei personaggi.”

[“La giostra“]

C’è solo un racconto, a mio avviso, dal titolo “Negative Space“, in cui il protagonista, finita la storia con la sua donna, riprende in mano il suo talento e ricomincia a suonare il pianoforte. Per lui la storia finisce quando lei non comprende e non valorizza il suo amore per la musica. Ma è grazie alla musica che il protagonista del racconto sembra scorgere uno spiraglio per dare nuovo significato alla sua vita.

“La giornata è finita, non sa dire se sia mai cominciata. Potrebbe dire lo stesso della propria vita. Prova l’impulso di mettersi a suonare, ma è convinto di non esserne più capace, di essere un fallito.
– Dove ti piacerebbe vivere? – gli ha chiesto Carol qualche giorno prima. Facevano il gioco dei se. Ipotizzavano un’altra vita, un’altra città. Vania non ha saputo rispondere. Lei va a Londra.
– La vita è strana, – dice accendendosi una sigaretta. – L’amo, ma non è la donna giusta.
Si versa un bicchiere di vino e va in soggiorno. Si avvicina al pianoforte, scruta lo spartito sul leggio: da metà pagina il pentagramma è vuoto. Rilegge le ultime battute, ne rincorre la sorgente, il canto, nella speranza che ve ne sia uno. Vuota il
bicchiere. Ricominciare da capo, pensa, sedendosi sullo sgabello. Inspira una boccata di fumo a occhi chiusi. La mente scivola fra i muti ricordi di quella giornata cercando un indizio, un segno…”

Altre volte vengono buttati là con leggerezza, ma non con superficialità alcuni temi sociali come la tossicodipendenza (nel racconto “Primo Amore“) e l’alcolismo (nel racconto “Rumori“).

“… Suo padre prosegue verso la dispensa, dove, pensando di non essere mai stato scoperto, in fondo a uno scaffale nasconde una scorta di bottiglie, dalla quale attinge sistematicamente. La porta della cantina stride sui cardini. Il figlio lo immagina intento nel suo rituale e prova una profonda vergogna. Disapprova, detesta la debolezza del padre. Come può credere che lui e mamma non abbiano ancora capito? Al pensiero dello stolido sorriso del padre riflesso nel suo, poi, gli sale la rabbia, tira un calcio alla sedia. Corre di sopra e raggiunge sua madre in cucina.
– Dov’è tuo padre? – chiede lei. – Chiamalo, digli che è pronta la cena.
– Papà! – grida il ragazzo da in cima alle scale.
– Papa!… – ripete.
– Arrivo, arrivo… – gli fa eco la voce attutita del genitore.
Poi il cigolio e la porta di ferro che si richiude.”

Le debolezze, i dolori umani, i conflitti relazionali uomo donna. Tutto ci appartiene se decidiamo di porci davanti alla vita senza fronzoli e liberi dai perbenismi del vivere.

“… Basta. Questo muro contro muro mi ha stufato. Questa donna mi ha stufato. Il suo profilo sottile, la sua voce ancora fresca, il suo argomentare ineccepibile mi danno la nausea, li detesto.
Sarà perché sono abituato a picchiare la faccia e a sfidare i mulini. Sarà perché anch’io so essere sordo e cieco, non voglio capire. Tanto lo so dove andranno a finire. Dove tutti andiamo a finire, prima o dopo.
Mi volto, guardo fuori dal mio finestrino. Il treno avanza a passo d’uomo fra palazzine spoglie, a pochi metri dalla massicciata
dei binari. Osservo i balconi scialbi, l’intonaco scrostato, i panni stesi. Sotto di me un’auto medica a lampeggianti accesi, la fisso nell’attimo in cui spingono dentro una barella, faccio in tempo a vedere due piedi. Sul lato opposto dell’edificio una donna armeggia fiacca in cucina come se niente fosse.
E niente è successo, in fondo. Solo una vita, sfilata sotto i miei occhi in un attimo, senza far rumore.
Mi alzo. Scuoto le gambe intorpidite nei pantaloni sudati. La giovane professionista è ancora alle prese col suo amante capriccioso.
Fisso il display del mio cellulare. Nessun messaggio. Da ieri. Chissà dov’è adesso, penso. E sento la vita, la mia, scivolarmi fra le dita.”

[“Dal finestrino“]

Tra i personaggi messi in campo non si scorge amore e la descrizione delle scene di sesso sembra sostituire tutto e soffocare ogni possibilità per loro di fare evoluzione nella vita. Come se il sesso anziché evento o istinto in cui ritrovarsi per fare festa diventasse prigione. La sessualità se vissuta male toglie energia e non ci fa fare evoluzione (pensiamo alle violenze e ai soprusi di ogni genere), Paolo ne parla. Credo che tutto quanto descritto, anche nella rappresentazione dei primi amori o di quelli più maturi, l’Autore rappresenti uno spaccato dell’umano molto aderente alla realtà.

Le donne così come gli uomini sono effettivamente personaggi irrisolti che spesso cercano la soluzione ai loro problemi nel rincorrere i ruoli legati a stereotipi sociali o familiari (avere figli, avere un marito). Nel racconto “Tic Tac” il desiderio di maternità è descritta come isteria.

“… Voleva essere madre, se n’era parlato. A me l’idea della paternità di per sé non dispiaceva. Ma dopo mesi di tentativi senza rimanere incinta, credo che la cosa per lei fosse ormai un’ossessione.
A volte la trovavo in camera, nuda, intenta a guardare la propria immagine riflessa nello specchio grande dell’armadio, mentre si sfiorava la pancia con una mano dicendo di avvertire un calore all’altezza del ventre. Un tepore liquido che sentiva estraneo e suo allo stesso tempo. Diceva proprio così. Poi arrivava il ciclo e cambiava subito umore. Diventava nervosa, impaziente. Era intrattabile.

… In camera faceva freddo. Lucy si era tolta il pigiama e si era infilata sotto il piumone. Mi spogliai e impilai i vestiti sopra la sedia. Entrai nel letto e mi sdraiai faccia al soffitto. Lei si girò sul fianco, ma non la guardai. – Che c’è? – Domandò. – Niente, – dissi chiudendo gli occhi.
Mi mise una mano sulla spalla e mi abbracciò. Le sue labbra sfiorarono le mie, che replicarono controvoglia. Sentivo il suo respiro sulla faccia, il suo alito. Con una mano le sfiorai il collo, poi scivolai lungo la schiena. Niente, era inutile.
– Si può sapere che hai? – chiese inviperita.
Pensai al piatto di baccalà con patate che avevo mangiato da solo in cucina, Lucy me ne aveva lasciato un po’ nel forno. Come mai sei tornato così tardi? aveva chiesto. Non le avevo risposto.
– Non me la sentivo, Lucy, sono troppo stanco –. La verità è che non sarei mai riuscito a farlo.
Lei non si arrese e passò la lingua sulle mie labbra chiuse, le leccò due o tre volte credendo di eccitarmi. Premette il seno contro il mio petto, sapeva quanto mi piacesse stringerle le tette quando mi stava sopra. Infine mi montò, sentii premere il suo sesso, emise n sospiro e mi baciò di nuovo.
Rimasi immobile, inerte, gli occhi che fissavano il vuoto sotto le palpebre. Deglutii piano. Lei si sollevò di scatto e si lasciò cadere
nella sua metà del letto, che cigolò tristemente. Si voltò dall’altra parte, strattonò le coperte e spense la luce. La sentii sussultare dal pianto.
Rimasi fermo, le braccia lungo il corpo, come un morto.
Per un po’ udii i suoi singhiozzi, poi il tic tac indifferente della sveglia.”

A questo punto darei la parola all’autore. Parto con una domanda. C’è una particolarità che mi ha colpita di te: il fatto che tu sia un ingegnere di uno studio affermato della città di Bergamo e che allo stesso tempo tu senta il bisogno di svolgere un’attività come questa, che certamente è più creativa e liberatoria degli stress dettati dalla tua professione. E’ vero questo? O ci sono altri motivi?…