Si fermarono ad un ristorante sulla strada a pochi chilometri da casa. Erano passate le dieci, il viaggio di rientro era durato più del previsto. Silvia entrò a chiedere se facessero ancora da mangiare. Lucio attese in macchina, ipnotizzato dalla luce intermittente di un semaforo.
Una coppia uscì dal locale, lui disse qualcosa e lei rise rumorosamente. Lucio li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano, illuminati dalla luce delle lanterne sopra l’ingresso, in cerca di un segno di complicità. Si domandò che età avessero, se stessero tornando a casa o fossero solo usciti a cena, magari al primo appuntamento. In quel momento Silvia riapparve sulla soglia e gli fece segno di scendere dall’auto.
Una donna sulla trentina con un bambino in braccio li accolse freddamente, indirizzandoli in un salone male illuminato pieno di tavoli vuoti, alcuni ancora da sparecchiare. Lucio ne scelse uno vicino a un grosso acquario che diffondeva una luce giallastra tutto intorno. Si sedettero e sfogliarono senza entusiasmo le pagine di un menù illustrato. Erano affamati, ma a un tratto pareva non avessero più voglia di ordinare. Fra uno sbuffo e l’altro, Silvia cercò una soluzione sulla carta, mentre con due dita si accaniva su di un riccio di capelli crespati dal sole. Lucio attese la sua prima mossa, osservando la varietà di pesci che popolavano la vasca accanto a loro.
La padrona accolse l’ordinazione con pochi cenni del capo, che muoveva a scatti, al pari del resto del corpo, come un robot. Poi scomparve dietro un tramezzo di legno istoriato da un basso rilievo. S’udì qualche parola e un rimestio in cucina. Il ristorante era sporco e buio, le tovaglie usurate. I pesci si ostinavano nel loro moto perpetuo nell’acqua intorbidita. Lucio e Silvia non avevano più niente da dirsi, si guardavano intorno senza trovare alcunché di gradevole o degno di nota, non un appiglio.
Non erano soli. Un uomo sedeva a un tavolino appartato a pochi metri da loro, nella penombra non l’avevano notato. Si accorsero di lui nel momento in cui aprì bocca rispondendo al telefono. Parlava un inglese senza intonazione, con una pronuncia pessima, cionondimeno corretto. Biascicava un poco le parole, ma non perdeva il filo della conversazione, rispondendo a tono e dando informazioni precise al proprio interlocutore.
Lucio e Silvia si concentrarono sulla telefonata. Si trattava di lavoro, macchinari in partenza per l’Africa. Lanciarono qualche occhiata all’uomo intento a fornire spiegazioni. Sulla sessantina, fronte alta, imperlata di sudore, capelli appiccicaticci tirati all’indietro. Portava un paio di occhiali a lenti grandi con una vecchia montatura di metallo. La camicia sbottonata sul petto, gesticolava e cincischiava i resti nel piatto con una bacchetta. Si comportava come se fosse solo, lo sguardo sul tavolo o dritto davanti a sé, senza curarsi della coppia seduta a pochi metri da lui. Doveva essere un viaggiatore di passaggio, un habitué, a giudicare dalla confidenza con cui si era rivolto alla locandiera.
I due mangiarono in silenzio, interrotto di tanto in tanto da una telefonata del vicino, che aveva finito di cenare da un pezzo e non dava l’idea di aver fretta di andarsene.
Nell’acquario un grosso pesce si muoveva radente il fondo. Era uno dei più grossi, forse il più grande di tutti. La linea del dorso, appena prima della coda, si spezzava piegandosi inaspettatamente all’insù. Accennava dei guizzi sfiorando la sabbia col ventre in rapidi movimenti concentrici, ritrovandosi sempre al punto di partenza. Agitava inutilmente le pinne, piegando il corpo fin dove gli era concesso, senza mai ottenere un risultato migliore di quello.
Lucio lo notò per primo e lo mostrò a Silvia. La testa, gli occhi, la bocca, che schiudeva ritmicamente, erano rivolti verso l’alto, quasi anelasse a raggiungere il pelo libero dell’acqua, ma il corpo deforme lo costringesse a rimanere inchiodato sul fondo. Pesci di taglia più piccola gli ronzavano intorno mordicchiandogli le squame lungo i fianchi, come volessero provocarne una reazione, saggiare la sua forza residua. Il gigante storpio, però, non replicava, li ignorava continuando a fissare gli strati d’acqua sopra di sé, in quella che sembrava una muta, disperata preghiera.
Silvia e Lucio osservarono incupiti quella scena, che fuori dal suo contesto assumeva i connotati di una macabra danza, l’anticipazione di un tragico epilogo.
– Non ne ha ancora per molto, – sussurrò lui.
– Nemmeno noi.
– Hello! – S’udì la voce impastata del viaggiatore. – Hello! Ciao… Come stai, tutto bene?
– E’ la cosa giusta, – disse Lucio.
– Sei sicuro?
Lucio esitò.
– Hai cenato?… Bene. Cos’hai mangiato?… Bene, bene.
Evidentemente per il vicino era giunto il momento della telefonata a casa.
– Sì, sì… Anch’io, Chop Suey, – proseguì ridacchiando. – Il solito, sì…
Si esprimeva un po’ in italiano, un po’ in inglese, intervallato da qualche frase fatta in francese. Parlava fissando gli avanzi nel piatto, che nessuno si curava di portar via. Scandiva parole scontate, recitandole affettuosamente in tre lingue diverse.
Lucio e Silvia non poterono fare a meno di ascoltare. Invidiarono la sua solitudine. Si fissarono. Silvia abbassò gli occhi.
Pensò al suo monolocale, alle cose da portar via, al frigorifero vuoto, la spesa da fare. A Lucy, la gattina, che aveva affidato alla vicina di casa. All’aroma di caffè nel bar sotto casa, la mattina, prima di andare al lavoro. Ai viaggi che avrebbe voluto fare.
Lucio osservò le sue mani annodare nervosamente il tovagliolo. Guardò i suoi capelli rossi, la cosa che di lei aveva notato per prima. Si ripeté che quella non era più la donna che aveva conosciuto, era cambiata. Di contro non riusciva a ignorare l’idea di una donna al telefono, in chissà quale parte del mondo, che aspettava il proprio uomo.
Lesse il numero del tavolo, si alzò e andò a pagare.
Nell’acquario, il dorso spezzato del grande pesce non smise di oscillare.
[P.B., 15/8/2020]
* “Pezzi rotti”, in cinese mandarino