foglie rosse

btr

 

ce lo saremo chiesti
allora
come sarà tra vent’anni
le fronti premute
sul vetro freddo del tempo,
emotività di una canzone
sconosciuta
angeli con occhi di fuoco.

ce lo saremo chiesti
che sarà di noi,
foglie rosse
sangue carsico
novembre di commemorazioni.

se guardo indietro lo rivedo
quel sedile di speranze
e la mia ingenuità
che non sa dargli un nome.

ma tu, oggi, cosa vedi?

[P.B., 24/11/2019]

Joker

(Ridi che ti passa)

 

Joker, il film

J. Phoenix allo specchio in “Joker”,  regia di T. Phillips – web

 

Il funzionamento del nostro organismo si basa su meccanismi talvolta sorprendenti. Beh, il fatto stesso che un essere umano si interroghi e indaghi il proprio corpo, i suoi misteri, arrivando a fare un’affermazione del genere è stupefacente di suo.

Il cervello è un organo che utilizza un sistema biologico estremamente complesso, evoluto e delicato, come il corpo umano, per elaborare ed esprimere ciò che percepisce, la propria reazione agli stimoli esterni, la propria visione della realtà. E nel farlo è perfettamente consapevole del fatto che essa sia inevitabilmente condizionata dal proprio apparato sensoriale.

Il cervello umano è in grado di formulare concetti astratti, è un ammasso di cellule in grado di osservare il mondo esterno così come di studiare se stesso, i propri comportamenti, le proprie pulsioni. Può parlare di sé, comunicare ciò che prova, a livello fisico e psicologico. E’ in grado di descrivere le proprie emozioni, di sondarle e interpretarle fino al punto di darne una rappresentazione figurativa, fino a metterle in musica.

Ogni volta che seguo il filo di questi ragionamenti e, nel farlo, visualizzo il mio encefalo intento nell’elaborarli, in una sorta di uroboro di sinapsi chimiche e millivolt emotivi che, come in questo caso, portano a una pagina scritta, ebbene, mi viene la pelle d’oca. Effetto a sua volta riconducibile a una secrezione ormonale indotta da una piccolissima differenza di potenziale prodottasi nella rete neurale.

Qualche tempo fa ho letto un articolo su una rivista scientifica che parlava dell’effetto che le azioni più semplici che compiamo ogni giorno possono avere sui nostri stati d’animo. In sostanza vi si affermava che il cosiddetto “linguaggio del corpo” può avere un ruolo determinante nella produzione degli ormoni che, presenti nel sangue in diverse concentrazioni, sarebbero responsabili delle sensazioni di benessere o malessere dell’individuo. Una persona, atteggiandosi in un certo modo, aumenterebbe la sintesi di testosterone e cortisolo e, di conseguenza, il proprio senso di sicurezza, fiducia, autorevolezza. Al contrario, un comportamento diverso, altrettanto innocuo e spontaneo, potrebbe agire sulla sensazione di stress, incrementandola, o accentuare uno stato depressivo.

Pare si tratti di un meccanismo molto simile a quello dello stimolo incondizionato, cui però può corrispondere una sensazione di benessere o malessere psicologico.

Sappiamo tutti che se la testa di un martelletto colpisce i tessuti molli sotto il ginocchio, può generare un impulso neurale che provoca la subitanea contrazione della muscolatura della coscia e, se la gamba è a riposo e libera, un calcio.

Sappiamo pure che se durante una conversazione, un colloquio di lavoro, un’intervista o un interrogatorio, ci si siede con le mani incrociate sui genitali, si fornisce al proprio interlocutore un’indicazione, più o meno evidente, più o meno leggibile, di insicurezza o timore. Spalle curve, sguardo abbassato, mani che si stringono nervosamente: stiamo comunicando uno stato di soggezione, di paura. Fronte distesa, sguardo deciso, busto eretto o proteso in avanti, mani che indicano in una direzione precisa: non abbiamo paura di nulla, siamo pronti a tutto. Posa particolarmente rilassata e confidente: siamo a nostro agio e ci godiamo lo spettacolo in attesa di qualche piacevole sorpresa…

La cosa più sorprendente, però, è che se all’inizio la nostra è soltanto una posa, col passar del tempo essa ci aiuta a convincerci che le cose stiano veramente così, sovvertendo il normale rapporto tra causa e effetto. Ti senti sicuro non perché sei rassicurato da ciò che vedi e che sta succedendo, ma perché è il tuo corpo che ti sta convincendo di esserlo.

Si stenta a credere che le cose funzionino proprio così, ma a quanto pare la chimica può confermarlo, è stato provato. L’adozione anche indotta di un determinato comportamento, compiere certi gesti, assumere talune posture indurrebbe secrezioni ghiandolari che per il nostro sistema nervoso centrale si traducono in altrettante sensazioni.

Non è la mente a controllare il corpo, ma viceversa. Osservare il proprio volto, il proprio corpo riflessi in uno specchio, influisce sullo stato emotivo. Attraverso il corpo possiamo manipolare i nostri stati d’animo, condizionare il nostro cervello, convincerlo, ingannarlo. Ne sanno qualcosa gli attori.

In inglese si dice “fake it ‘till you make it”: fingi finché non lo fai davvero, fingi finché non sei convinto che è vero.

Io lo faccio. Fingo, mi illudo, mi condiziono, mi trasformo. Lo faccio ogni giorno, più volte al giorno. Non sto esagerando, la metamorfosi avviene così frequentemente ormai, che non me ne rendo nemmeno conto.

Come? Rido. Spesso, sempre. E’ una cosa che faccio senza controllo.
In principio mi chiedevo perché accadesse, perché ridessi anche senza un motivo apparente. E’ strano, mi dicevo, rido anche quando vorrei essere serio, anche quando sono arrabbiato. Voglio litigare? Rido. Voglio essere duro, scostante, provocatorio? Rido. Voglio essere severo e fare un rimprovero? Magari ci provo, ma alla fine rido. Più sono stressato, imbarazzato, in soggezione, più rido. Rido anche quando mi fanno un complimento, quando si manifesta attaccamento o particolare affezione nei miei confronti. Non è per contentezza, non solo almeno. Rido anche quanto c’è troppo silenzio, quando mi sento al centro dell’attenzione e non so cosa fare, quando la gente aspetta da me delle risposte e io non le so dare.

Rido. Anche solo per riempire il vuoto.

La mia risata è come uno scudo, mi protegge, e allo stesso tempo mi lavora. Ogni mia risata è un invito alla leggerezza, è come un’alzata di spalle, un piccolo esorcismo. Ogni risata è un passo verso l’oblio a fronte di una minima dose di benessere immediato, di una piccola iniezione di serenità. La mia risata mi aiuta, la mia risata mi dà dipendenza.

Mi mancherà la sua risata, disse la mia vicina di casa il giorno in cui le comunicai che mi sarei trasferito. Credo fosse ironica. Agli altri potrà anche dare fastidio, ma a me la mia risata piace, è una medicina. Al lavoro la uso un sacco, forse troppo, sono anche stato richiamato.

Rido e mi convinco di stare un po’ meglio. Rido e forzo il mio organismo a stare un po’ meglio. Faccio tutto da solo, basta un banale trucchetto. Là dove comincia il disagio, io ci infilo una bella risata. E’ cominciato tutto per caso, involontariamente, tanti anni fa. Adesso funziona alla grande.

Sono un irriducibile ottimista. Non sono io, in realtà, è il mio corpo, ma l’effetto è lo stesso. Per quanto mi riguarda, la mia ristata non è spastica, né malata. Solo, non sono io a decidere di ridere, è il mio corpo a farlo. Forse è più intelligente di me e ha deciso di farsi carico delle lacune del mio sistema nervoso centrale. Forse è l’istinto.

Fatto sta che io rido.

Rido quando mi feriscono, rido quando mi offendono, rido quando m’incazzo. Rido quando non capisco, quando sono deluso.

Ridi che ti passa, è così che si dice, no?

Stando all’articolo che ho letto, alcuni psicologi sostengono che lasciar fare al proprio corpo sia in fin dei conti cosa buona. Anzi, invitano a prendersi gioco di sé, manipolando le proprie reazioni con arte, esercitandosi a dovere.

Con gli indici pieghi le labbra all’insù. Stai sorridendo. Tira un po’ di più, vedi i denti? Stai già ridendo.

“Fake it ‘till you make it”.

Prima non lo sapevo, ma questa è la mia vita.

 

[Qualsiasi nozione di carattere scientifico o pseudo-scientifico riportata in questo brano si basa su informazioni derivate da letture o dai media, per poi venir opportunamente riprodotte e distorte dal sistema nervoso centrale del sottoscritto, al solo fine di sortire un qualsiasi effetto di carattere narrativo.]

 

[P.B., 14/11/2019]

L’arte della manutenzione degli affetti

L'arte della manutenzione degli affetti

 

Stanotte l’ha vista di nuovo. Era inverno, nevicava, grossi fiocchi scendevano lenti nel silenzio. Lui era fuori, all’aperto, ma dove? Si concentra. Vede un ballatoio. La balconata di una casa come quella in cui ha vissuto da piccolo. Il primo o secondo piano di uno di quei signorili palazzi milanesi che, oltrepassato l’androne, rivelano un aspetto completamente diverso, rustico e dimesso. Due versioni della stessa realtà: un involucro elegante che s’affaccia su un viale alberato, un cuore povero e essenziale, più simile alla corte di un casale di campagna con l’acciottolato sconnesso, un angolo di verde incolto, l’intonaco scrostato, le ringhiere in ferro e i fili per stendere i panni.
E’ notte, sta nevicando, ma non sente freddo, non se ne cura, sta cercando qualcosa. Avanza sul ballatoio e si accorge che non è quello di casa sua. Strano, per un momento ha pensato lo fosse, passando davanti alle finestre, scorgendo gli interni bui delle stanze, gli era parso di essere rimasto chiuso fuori.
Più avanti, una stanza con la luce accesa. Perché non l’ha notata subito? Ha la sensazione che le cose intorno a lui mutino a ogni sguardo. Si dirige verso la luce, i suoi piedi ora si muovono sul pavimento lucido di una terrazza. Non si volta, ma è quasi certo che alle sue spalle ci sia una piscina. Quella davanti a lui è una casa isolata con le finestre incorniciate di bianco, i vetri lavorati delle finestre deformano le ombre all’interno confondendole. Spinge un’anta che sa essere solo accostata e decide di entrare. Nella penombra di un ampio soggiorno è accolto da un piacevole tepore che gli fa pensare che quella non lo è, ma avrebbe potuto essere casa sua. La cosa lo disorienta, i suoi movimenti si fanno incerti, titubanti. Ciò che sta per vedere dipende da lui.
Sale lentamente dei gradini verso un vano più interno, una specie di altana, il cuore caldo della casa. Di fronte a lui, ben illuminato al centro della stanza, c’è un grande letto bianco, nel quale dorme una donna. E’ sdraiata di lato, composta, i capelli neri sciolti sul cuscino. La riconosce subito: è sua moglie.

Si massaggia il collo indolenzito. Sente addosso il peso e le scorie del sogno: stanchezza, vecchi ricordi che si riaffacciano improvvisamente.
Una volta sua moglie gli mise in mano un libro. Me l’hanno regalato, disse. Lui si domandò il perché di quel gesto: era destinato a lei, non gli passava mai un libro prima di averlo letto. E’ stato un collega, aggiunse.
Fu il modo in cui lo disse. La fissò interrogativo. Chi?, chiese. Si chiama Paolo, rispose lei, non l’hai mai visto. Parlava dandogli la schiena, con l’aria di non voler dar peso alla cosa. Camminava per casa in cerca di qualcosa e lui cominciò a seguirla senza rendersene conto.
Mi ha chiesto di uscire, ma io gli ho detto di no, aggiunse con sufficienza.
Si fermò, fissò il libro, un Adelphi marrone chiaro con una strana immagine in copertina, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, di Pirsig. Non osò aprirlo.
Pulirsi la coscienza è un gesto abbastanza semplice tutto sommato, come sciacquare una tazzina.
C’era una dedica all’interno. Glielo disse lei. Sfogliò le prime pagine e la trovò, scritta a biro nera, con calligrafia verticale e chiara, un po’ naif.
Stanotte ti ho sognata. Indossavi un maglione chiaro di cashmere con il girocollo. Eri in bagno e ti lavavi le mani. Ti voltavi e mi guardavi sorridendo, con aria colpevole da bambina.
La lesse più volte cercando di trovare un senso diverso da quello che gli agitava la bocca dello stomaco. Lasciò il libro sul canterano, sapendo che non l’avrebbe mai letto, né avrebbe più potuto dimenticarlo.

Quando finì il loro matrimonio?
Ieri ha raccontato il suo primo tradimento a una donna che aveva appena conosciuto e non aspettava altro che scopare con lui. Non l’aveva mai raccontato a nessuno, né a un amico, né a suo fratello. Ha vomitato tutto in faccia a una perfetta sconosciuta.
Ha goduto come se lo stesse facendo per la prima volta. Gli occhi di lei, accesi e liquidi, erano come uno specchio. Lui l’attore al maquillage che riprova la parte, mentre il suo volto cambia aspetto assumendo altre sembianze.
Le ha raccontato tutto, si è lavato la coscienza, come un bambino che prova a togliere la macchia sui pantaloni nuovi nel bagno di scuola.
Perché gliel’aveva detto? Poteva leggersi quel cazzo di libro, uscire con lui quando e come voleva senza dirgli niente. Poteva tenere tutto nascosto e godersela, invece si era sentita in colpa, oppure aveva voluto metterlo alla prova, vedere come reagiva. Magari ne aveva un altro, è possibile.

Aveva ventotto anni. Si preparava per una gita sul fiume con la donna che stava per sposare. Era in ritardo, per via del porta bici, che aveva deciso all’ultimo di montare sopra il tettuccio della sua auto. Invano. Dopo un paio di tentativi di fissarlo, con tanto di chiave inglese, l’unico risultato che aveva ottenuto era stato quello di smontarlo senza più riuscire a tornare al punto di partenza. Al che si arrese, incastrò in qualche modo la bicicletta nel baule della macchina e si avviò, abbandonando quel mucchio di ferraglia disarticolata sul pavimento del garage.
Questa immagine per lui è emblematica. E’ la sua vita. Fatta di ritardi, improvvisazioni, insuccessi, insoddisfazioni. Lui e la bicicletta – ce l’ha ancora, sepolta da scatole e materassi, in fondo alla cantina. Lui e la sua incapacità pratica e manuale di conservare le cose. Lui e la sua inconcludenza, la sua improduttività, la sua sterilità. Lui e la sua mancanza di ambizioni, i suoi fallimenti. Lui e la sua mancanza di attenzione per gli affetti, le persone.
Oggi è come allora. Non sa fare nulla. Non si prende cura di nulla, non aggiusta nulla, non vale nulla. Ammetterlo, raccontare a qualcuno queste cose, può forse servire a vivere meglio con se stesso. Ma non a cambiare lo stato delle cose.

[P.B., 09/11/2019]

Credits: “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, di M. Pirsig, Ed. Adelphi, 1990, dettaglio di copertina

Amarsi

La bellezza dell'imperfezione - Mimmo_66

“La bellezza dell’imperfezione”, Mimmo_66 – web

 

Sono in ufficio, sto lavorando. A un tratto mi alzo per andare a pisciare. Lo tiro fuori e ripenso alla tipa del bar di ieri sera, quella col culo spaziale, che al momento di pagare si contorceva sul montavivande dietro la cassa, per pulirlo bene. A momenti mi viene duro. Poi penso al momento in cui mi aveva proposto il dolce. Dal lato sbagliato. Nel locale c’era il solito bordello e non l’ho sentita parlare. Ho alzato lo sguardo, mi sono scusato. Lei mi ha sorriso. Il rossetto rosso, opaco, le donava su quel viso da morettina dalla carnagione lunare. Ha detto non fa nulla, con voce da ragazzina, le labbra corrugate.

E penso a quando l’ho conosciuta, la mia donna. Eravamo a cena da amici. Ci vedevamo per la prima volta e ci stavamo studiando. Mi aveva quasi bocciato, quando è successo un piccolo miracolo: mi ha detto una cosa e io non l’ho sentita. Era anche lei sul lato sbagliato. Le ho spiegato perché e lei mi ha sorriso a lungo in silenzio.
Credo si sia innamorata di me per questo. Per un difetto, piccolo o grande che sia. Una mancanza, una fragilità. Si è commossa e mi ha rimesso in gioco.

Non so perché sia successo, non lo capirò mai. Ma credo che non essere perfetti e infallibili faccia parte del gioco. Il fatto è che non bisogna capire più di tanto, non bisogna sapere. Bisogna sentire. E io lei la sento. Quando si commuove, quando mi chiede, quando la ferisco, quando ride. Quando sente che la sto sentendo.
Non so perché stiamo insieme, potrebbe non bastare una vita per capirlo. Nel frattempo, continuo a chiedere e dare risposte. Perché è qualcosa di cui vale la pena parlare, perché è qualcosa per cui vale la pena darsi del tempo. In fondo, credo che il senso di una relazione consista proprio in questo: spendere una vita provando a capire perché ci si ami dal primo giorno.

[P.B., 17/10/2019]

Do spazio (e dignità) a un mio brevissimo brano nato fra i commenti a un post di qualche settimana fa (l’aforisma originante). Uno scritto breve, rapido, tutto sommato con un suo ritmo, che, usando delle pinze lunghe da qui a Costanza, nella sua essenzialità penso dica qualcosa.

Rapidità

[La perfetta essenzialità di un racconto]

 

Ofelia - J. E. Millais

“Ophelia”, di John Everett Millais – web

 

L’imperatore Carlomagno in tarda età si innamorò di una giovane ragazza tedesca. I baroni della corte erano molto preoccupati vedendo che il sovrano, tutto preso dalla brama amorosa, e dimentico della dignità regale trascurava gli affari dell’Impero. Quando improvvisamente la ragazza morì, i dignitari trassero un respiro di sollievo, ma per poco: perché l’amore di Carlomagno non morì con lei. L’imperatore, fatto portare il cadavere imbalsamato nella sua stanza, non voleva staccarsene. L’arcivescovo Turpino, spaventato da questa macabra passione, sospettò un incantesimo e volle esaminare il cadavere. Nascosto sotto la lingua morta, egli trovò un anello con una pietra preziosa. Dal momento in cui l’anello fu nelle mani di Turpino, Carlomagno s’affrettò a far seppelire il cadavere, e riversò il suo amore sulla persona dell’arcivescovo. Turpino, per sfuggire a quella imbarazzante situazione gettò l’anello nel lago di Costanza. Carlomagno si innamorò del lago e non volle più allontanarsi dalle sue rive.

[Da “Lezioni americane – Sei proposte per il prossimo millennio”, di Italo Calvino, Ed. Garzanti, 1988 – Capitolo secondo: “Rapidità”]

“Leggenda” tratta da un quaderno di appunti inedito dello scrittore romantico francese Barbey d’Aurevilly, scelta da Calvino fra tante e diverse versioni della medesima storia, e portata ad esempio per la sua lucente e ineguagliata efficacia narrativa.

Gioielli Rubati 62: Chiara – Alessandra Solina – Franco Bonvini – Shira Shaman – Paolo Beretta – Charles Reznikoff – LaPoetessaRossa – Maria Allo.

almerighi

ATOMOI

Ho letto Kant
“il cielo stellato sopra di me
la legge morale
dentro di”…te
e poi c’era Hegel,
causa finale
ma non efficiente,
perché è diverso, diceva,
e per capire bisogna sapere
cosa accade dopo
di me che divento
altro da (te)
e che ritorno dentro di me
e poi…? E poi vaffanculo,
infatti non era nemmeno così.
Abbiamo solo mescolato i semi
delle anime, anime nostre
e non siamo lo Sfero
e nemmeno il Nous.
Siamo solo a-tomoi,
indivisibilmente democritei
in un mondo chiamato
Iperuranio.

di Chiara, qui:

Atomoi

*

La vida es sueño

Rotolo tra le stoffe d’Oriente
per un filo d’oro che sa di lontananza.
Il mercante fiuta le donne
e vende loro damascati e sogni.
Mi stufo facilmente delle sue ciarle,
voglio conoscere le sete col mero tatto.
La mano mi svelerà il loro viaggio:
onde delicate e marosi turbolenti,
spose lasciate sull’altare
e uomini…

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