Quando lo vide per la prima volta, Ettore ebbe un sussulto. Come tanti suoi simili, anch’egli nutriva un’innata repulsione per quel genere di creature. Stavolta, però, seguita da un sentimento di conforto, dovuto forse all’anomalia della sua situazione. Non siamo soli, rifletté consolandosi.
Scrutò la locusta aggrappata al telaio esterno della finestra dello studio. Era enorme, con lunghe antenne sopra gli occhi e un paio di robuste zampe posteriori ripiegate come se dovesse balzar via da un momento all’altro. E invece stava lì, ferma, come una statua, quasi alla finestra qualcuno ce l’avesse incollata. Guardando con più attenzione, si poteva notare, sul dorso delle zampe posteriori, una fila di solidi aculei simili a rostri affilati. Più che ricordare un grillo o una cicala, quell’essere evocava uno strano guerriero, un alieno approdato dallo spazio. Ettore si chiese a cosa servissero quelle punte acuminate. Non certo ad aggrapparsi, per quello l’insetto usava altre due paia di zampe, più esili, girate all’infuori, anche se non allo stesso modo. Ogni coppia di arti aveva un’articolazione diversa. Di che specie fosse, che nome avesse, se si trattasse di una locusta o di un qualche altro esemplare della famiglia degli ortotteri, Ettore non avrebbe saputo dirlo, non se ne intendeva. Contemplando l’impenetrabilità della sua corazza, l’indifferente immobilità degli occhi, se così si potevano definire i gusci rigati da sottili fessure verticali posti alla base delle antenne, decise che non poteva trattarsi di una femmina, no, era un maschio, una specie di samurai.
– Guarda, – disse a Giulia, sua moglie, quando entrò nello studio a metà del pomeriggio reggendo il vassoio del tè, – c’è qualcuno là fuori -. Lei seguì la proboscide dell’elefante in cima all’impugnatura della matita del marito e l’attimo dopo fece una smorfia di sorpresa mista a ribrezzo. – Che schifo! – esclamò.
Ettore ridacchiò alzandosi dalla scrivania. La raggiunse alla finestra, voleva osservarlo di nuovo, da vicino. – Non è stupefacente? – commentò. – E’ lì da stamane, nella stessa posizione, non si è mai mosso. Ma è vivo, sono certo che è vivo -. Annuì compiaciuto della straordinaria capacità di adattamento manifestata dall’insetto.
– Che ci fa attaccato alla nostra finestra? – chiese Giulia.
– Si scalda, – rispose Ettore. – Fuori fa freddo e questa finestra è rivolta a sud, prende luce tutto il giorno.
– E non si nutre? – domandò lei.
– Queste creature possiedono risorse che noi non immaginiamo neanche, – sentenziò Ettore senza staccare gli occhi dall’immobilità statuaria dell’insetto. Ne era affascinato. Ogni piega della sua armatura sembrava disegnata ad arte. La forma affusolata del corpo era compatta e inattaccabile. Una macchina perfetta, fatta per resistere, per sopravvivere.
– Un essere del genere non respira nemmeno, – si sentì sussurrare.
Giulia, accanto a lui, rimase in silenzio.
Un paio di giorni dopo accadde un fatto increscioso. Ettore non avrebbe mai osato modificare il corso naturale degli eventi, ma il caso la pensò diversamente e volle che fosse proprio lui l’artefice inconsapevole del cambiamento. Dopo quasi due settimane particolarmente rigide per quella stagione – aveva anche nevicato, apparve infine un tiepido ma incoraggiante sole primaverile. A metà mattina, Ettore alzò la testa dal volume che stava leggendo e fece il giro dell’appartamento spalancando tutte le finestre. Alla radio e in televisione si continuava a ripetere che, per via della quarantena, era un’ottima cosa ventilare gli ambienti. Giulia era andata a fare la spesa e lui così fece: aprì gli infissi uno a uno, e mentre una leggera corrente percorreva il corridoio e attraversava le stanze, distese le braccia e inspirò profondamente a occhi chiusi con un vago senso di sollievo, di speranza, o di rivalsa. Andrà tutto bene.
Spense il riscaldamento, avrebbe lasciato aperto per un po’. Andò in cucina e si fece un caffè. Tornato nello studio, chiuse la porta, poi le ante della finestra. Ed ecco che in quel momento udì un rumore, estraneo ma non impossibile da decifrare. Trasalì, la locusta non era più al suo posto. Istintivamente lasciò la maniglia della finestra, le ante oscillarono piano, avanti e indietro. Ettore girò lo sguardo tutt’intorno, sulla scrivania, per terra, sugli scaffali della libreria. Nessuna traccia. La stanza era piena di oggetti, libri, carta e cianfrusaglie, l’ultimo dei samurai poteva essersi nascosto ovunque. Magari se n’era andato da qualche altra parte, fuori, a rinfrancarsi sull’intonaco della facciata del palazzo, scaldato dai raggi del sole. Una specie di scricchiolio gli fece alzare lo sguardo. Eccolo lì, invece, abbarbicato allo spigolo superiore della finestra, a metà, né dentro, né fuori, dava l’idea di starla cavalcando.
Un bel problema, rifletté Ettore: se chiudeva l’anta rischiava di schiacciarlo, o quanto meno di provocargli una serie di amputazioni, oppure di farlo saltare all’interno dell’appartamento, il ché non era previsto. Non aveva voglia di catturarlo: per un attimo immaginò le parti spigolose e pungenti del corpo dell’insetto a contatto con la pelle delle proprie mani. Rabbrividì. Avrebbe anche potuto morderlo. Si rese conto che forse stava esagerando e analizzò il problema da un altro punto di vista. Toccare l’insetto poteva significare ucciderlo. Escogitò quindi un piano alternativo. Avvicinò una mano e spinse lentamente l’anta della finestra verso la battuta, mostrando delicatamente all’ospite indesiderato la criticità della situazione. Sarebbe stato lo stesso samurai a decidere: dentro o fuori. Meglio fuori.
E invece fu dentro. Quando capì che, per quanto corazzato, poteva concludere la propria esistenza sfracellandosi sulla cornice di una finestra, l’insetto ritenne di poter ambire a qualcosa di meglio e pensò bene di spiccare il volo. Il volo, sì. Quelle zampe erano dei veri e propri propulsori, constatò Ettore, che di fronte a una creatura che probabilmente abitava il pianeta insieme ai dinosauri non trovava miglior vocabolario di quello dei film di fantascienza. Schizzò sopra la sua testa come un razzo, una scheggia. Ci fu anche un battito d’ali. Ora però era diventato invisibile. Abbandonata l’inutile ricerca, Ettore girò la maniglia e con fare circospetto riprese posto alla scrivania, non senza aver scrollato i cuscini sulla poltrona.
Lo vide solo dopo qualche ora, per caso, chinandosi a raccogliere una penna caduta per terra vicino al cestino della carta. Era aggrappato a un vecchio album di fotografie appoggiato al fianco alla libreria, alle sue spalle. Si era mimetizzato, la copertina dell’album era rilegata con un tessuto verdastro, molto simile a quello della sua corazza. Era immobile, come sempre. Dalla nuova angolazione con cui lo osservava, Ettore ebbe quasi la sensazione che sorridesse. – E ci credo, – bofonchiò a mezza voce, – te ne stai al calduccio adesso…
Si rimise al lavoro, doveva terminare una traduzione entro sera. Di tanto in tanto, però, si voltava di scatto per sorprendere il suo ospite nel bel mezzo di un passo falso, ma niente, la locusta spaziale rimaneva dov’era, impassibile, con quel suo ghigno gaudente, piacevolmente ibernata.
Dopo cena, Ettore lasciò Giulia muta davanti alla televisione, fra conferenze stampa, pareri e bollettini di guerra. Un triste tam tam cui correvano il rischio di abituarsi, accrescendo il senso d’impotenza che ritmava le loro giornate d’isolamento. Fortunatamente aveva altro da fare, pensò. Una cosa che sua moglie era riuscita a rinfacciargli: – Non pensi ad altro che al tuo lavoro, passi tutto il giorno fra i tuoi libri, nella tua bolla. Sei fortunato, la tua vita va avanti lo stesso, se stai lì almeno non avverti il dolore.
Ultimò la traduzione. Fu più faticoso del previsto, ci volle ancora qualche ora. Il cono della lampada sulla scrivania inquadrava il manoscritto su cui stava lavorando, il vocabolario, la tastiera del computer e, appena oltre la spalla, il suo ospite, che ormai gli teneva compagnia. – Hai scelto bene, – gli sussurrò Ettore, – ancora una volta baciato dalla luce.
Erano quasi le due quando sentì un fruscio, si voltò e non lo vide più. Per un attimo fu colto dal panico, le mani di pietra, rimase immobile, in ascolto. Ci fu un altro frullare d’ali, un baccano inaudito nel silenzio della notte. Ettore mosse lo sguardo nel buio della stanza, inseguendolo. Un altro volo, ora distingueva anche il rumore sordo dell’atterraggio, poteva immaginare la fusoliera rigida dell’ortottero sbattere sulle superfici lignee dello studio. Tutto a un tratto gli era venuta la fregola, pensò. Un sibilo e un’ombra volante gli passò davanti agli occhi. – Eccolo! – gli scappò detto. Era vicinissimo. Un altro salto e stavolta l’atterraggio fu sulla scrivania. Ettore scattò sulla poltrona alzando le mani. Poi si controllò e tese le orecchie. Un lieve cri cri risuonava fra i porta penne e le carte davanti a lui. Piegò lo stelo della lampada, aguzzò la vista. Non vide niente. Cri cri… Cri cri cri… Finalmente lo trovò, proprio sotto il suo naso, dritto con la testa all’insù, aggrappato a una matita, schiena contro schiena con l’elefante indiano. Ettore lo inquadrò nella luce e sorrise. – Ti sei calmato? – chiese.
Lo osservò attentamente: a turno muoveva le zampette e le antenne. Queste ultime facevano ampi movimenti circolari, come se misurassero la spazio circostante con tanti piccoli coni. No, non si era ancora placato. Dopo una piccola pausa riflessiva sullo stelo di una 2H, salutò l’elefantino e migrò su un pennarello. Non contento, discese e diede un’occhiata alla corrispondenza.
Ettore era stupefatto. In piena notte il suo ospite interstellare si era rivitalizzato, addirittura ringalluzzito, e aveva cominciato ad esplorare il nuovo pianeta in cerca di… Cosa?
L’insetto cominciò a perlustrare la scrivania in lungo in largo. Costeggiò il vocabolario, attraversò il manoscritto, circumnavigò il computer portatile. La presenza del padrone di casa non sembrava intimorirlo affatto, tutt’altro. Ettore, basito, lo guardò girare fra le proprie cose come se niente fosse. – Accomodati pure! – esclamò.
Il computer parve piacergli parecchio. Per via della ventola dell’aria calda, suppose Ettore. Fece una pausa per un phon, poi si diede di nuovo alla lettura. Nel frattempo Ettore provò a scrivere qualche frase, ma il pioniere, forse richiamato dal ticchettio della tastiera, tornò sui suoi passi. Ormai era pochi centimetri di distanza. Ettore batteva sui tasti carattere, lui passeggiava su quelli funzione. Le loro dita, se così si può dire, si sfioravano. Poi, d’improvviso, un nuovo balzo, più corto, e il samurai fu sulla sua spalla.
Fu il contatto. Ettore lasciò che il samurai s’inerpicasse liberamente in lungo e in largo sul suo pullover, ma quando un’antenna o forse una zampetta gli stuzzicarono il collo, non resistette e con uno strattone se lo scrollò di dosso.
L’ospite cadde sulla scrivania, ma per nulla offeso o tramortito, roteando le antenne riprese a girovagare, finché non chiese apertamente di poter salire sul dorso di una mano. Ettore, che si sentiva un po’ in colpa per la reazione di poco prima, acconsentì. Lasciò che lo percorresse fino alle nocche e si dirigesse verso l’incavo fra indice e pollice. Da lì, con un’agile giravolta, l’esploratore si diresse verso la falange del primo dito, cui si aggrappò ben bene con le quattro zampine.
Fece una pausa. – Ma pensa un po’, – sussurrò Ettore. – Hai trovato il tuo posto? -. L’insetto non muoveva che le antenne e la testa. Sembrava stesse annusando qualcosa. Ettore girò il palmo della mano scrutandolo da vicino. Il muso dell’animale ora sfiorava il polpastrello del pollice con fare curioso. Ed ecco che il samurai aprì la parte anteriore del casco e qualcosa di molto simile a una piccola chela ne sfiorò la pelle. Ettore sorrise sorpreso: quella micro-ganascia gli faceva il solletico. Immaginò che stesse prelevando campioni di epidermide da portare in laboratorio… La cosa proseguì ancora qualche istante finché il samurai non affondò il colpo.
– Ahi! – gridò Ettore scuotendo la mano spaventato.
L’ospite cadde in piedi, come sempre, fra due quartine in cirillico.
Ettore si alzò di scatto, agitato. Aveva sottovalutato la forza di quelle fauci: erano in grado di ferire. Per un attimo gli balenò l’immagine del proprio pollice scarnificato.
Era giunto il momento di agire, quella convivenza si era rivelata un fallimento, non poteva più continuare. Ettore, per giunta, doveva finire il proprio lavoro.
Raccolse i fogli dalla scrivania e con essi il suo ospite, andò alla finestra, l’aprì, l’aria gelida della notte invase la stanza. Senza indugiare oltre, scaraventò l’insetto nel buio.
Per un momento rimase in ascolto senza udire nulla. Poi per il freddo e la paura che potesse rientrare, richiuse la finestra. Provò pena, sapendolo là fuori al freddo. Ma poi alzò le spalle e rimise in ordine i fogli del manoscritto. Lui certo sarebbe sopravvissuto.
[P.B., 21/4/2020]
Dedicato a Antonio Bì, forse più noto come il barman del club.