Nutrire l’oggi

Nutrire l'oggi

 

Nutrire l’oggi.
E nutrire il domani.
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Appassionarsi. Trovando sulla propria strada uomini e donne di passioni.
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Le pietre sul sentiero a ricordare le asprezze, gli inciampi, il dolore.
La vita che è fatta di tutto. Sorrisi e schiaffi. Ricevuti. Anche dati, che in fondo nessuno è migliore di un altro.
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Determinata e testarda.
Disordinata e caotica.
Eppure Fenice Responsabile. Dicono di te.
Sguardi altri, che sorprendono e svelano bellezza.
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Qualche t-shirt. I maglioni di tuo padre. Uno zaino da montagna. E i capelli, qui raccolti, quasi nascosti e adesso cortissimi, da sola, con le forbici allo specchio. Tanto. La quarantena.
La femminilità, per ora, tutta dentro il tuo sorriso.
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Perché tu ridi. Ridi.
Fresca e piena.
Così è il tuo nome.
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[Aurelia, chouckrydoux, 26/4/2020]

Vestale

 

Vestale

 

 

Caro, me lo chiederò tutta la vita.

Forse, tu hai già risposto,

solo perché sei più avanti negli anni.

Ma è troppo difficile barattare calma

ed emozioni contenute

con la vertigine e la nausea

per un’assenza.

Sapere che al fondo di tutte le cose

ci sono io. Io, non tu,

a vegliare

le notturne incursioni

della tua mancanza,

mi consola.

 

[I.P., 26/4/2014]

 

Immagine di copertina: web

Sopravvivenza

[la ricetta di Herman]

 

Sopravvivenza

 

Nella filosofia personale di Herman, a garantire la sopravvivenza era la scaltrezza. Dal microbo all’uomo, da una generazione all’altra, la vita si affermava sottraendosi ai gelosi poteri della distruzione. Proprio come durante la prima guerra mondiale avevano fatto i contrabbandieri di Cywkow, che si riempivano gli stivali e le camice di tabacco, si nascondevano addosso merci di ogni genere, e varcavano clandestinamente il confine, infrangendo la legge e corrompendo i funzionari, così nel corso delle epoche si era fatto furtivamente strada ogni singolo protoplasma. Era andata così quando erano comparsi i primi batteri nel limo ai bordi dell’oceano e sarebbe andata così una volta ridotto il sole in cenere, quando l’ultima creatura ancora viva sulla terra sarebbe morta di freddo o in qualunque altro modo prevedesse il copione del dramma biologico finale. Gli animali avevano accettato la precarietà dell’esistenza e la necessità della fuga e dell’astuzia; solo l’uomo cercava la sicurezza e invece riusciva a causare la propria rovina.

 

[Isaac Bashevis Singer, Nemici – Una storia d’amore, Trad. Marina Morpurgo, Ed. Adelphi, pp. 223-224]

 

Segue un interessante quanto caustica descrizione della “scaltrezza” dimostrata dal popolo Ebreo nel corso della storia, biblica e moderna, “riuscito a passare surrettiziamente attraverso il crimine e la follia” e dell’ulteriore passo avanti compiuto da Herman, protagonista del romanzo e sopravvissuto all’annullamento della Shoah divenendo un irriducibile fatalista e nichilista, in grado, in quanto ebreo, di ingannare tutti e tutto, inclusa la sua stessa fede, quindi se stesso. Ma questa è un’altra storia, o solo una parte.

L’ospite

L'ospite

 

Quando lo vide per la prima volta, Ettore ebbe un sussulto. Come tanti suoi simili, anch’egli nutriva un’innata repulsione per quel genere di creature. Stavolta, però, seguita da un sentimento di conforto, dovuto forse all’anomalia della sua situazione. Non siamo soli, rifletté consolandosi.
Scrutò la locusta aggrappata al telaio esterno della finestra dello studio. Era enorme, con lunghe antenne sopra gli occhi e un paio di robuste zampe posteriori ripiegate come se dovesse balzar via da un momento all’altro. E invece stava lì, ferma, come una statua, quasi alla finestra qualcuno ce l’avesse incollata. Guardando con più attenzione, si poteva notare, sul dorso delle zampe posteriori, una fila di solidi aculei simili a rostri affilati. Più che ricordare un grillo o una cicala, quell’essere evocava uno strano guerriero, un alieno approdato dallo spazio. Ettore si chiese a cosa servissero quelle punte acuminate. Non certo ad aggrapparsi, per quello l’insetto usava altre due paia di zampe, più esili, girate all’infuori, anche se non allo stesso modo. Ogni coppia di arti aveva un’articolazione diversa. Di che specie fosse, che nome avesse, se si trattasse di una locusta o di un qualche altro esemplare della famiglia degli ortotteri, Ettore non avrebbe saputo dirlo, non se ne intendeva. Contemplando l’impenetrabilità della sua corazza, l’indifferente immobilità degli occhi, se così si potevano definire i gusci rigati da sottili fessure verticali posti alla base delle antenne, decise che non poteva trattarsi di una femmina, no, era un maschio, una specie di samurai.

– Guarda, – disse a Giulia, sua moglie, quando entrò nello studio a metà del pomeriggio reggendo il vassoio del tè, – c’è qualcuno là fuori -. Lei seguì la proboscide dell’elefante in cima all’impugnatura della matita del marito e l’attimo dopo fece una smorfia di sorpresa mista a ribrezzo. – Che schifo! – esclamò.
Ettore ridacchiò alzandosi dalla scrivania. La raggiunse alla finestra, voleva osservarlo di nuovo, da vicino. – Non è stupefacente? – commentò. – E’ lì da stamane, nella stessa posizione, non si è mai mosso. Ma è vivo, sono certo che è vivo -. Annuì compiaciuto della straordinaria capacità di adattamento manifestata dall’insetto.
– Che ci fa attaccato alla nostra finestra? – chiese Giulia.
– Si scalda, – rispose Ettore. – Fuori fa freddo e questa finestra è rivolta a sud, prende luce tutto il giorno.
– E non si nutre? – domandò lei.
– Queste creature possiedono risorse che noi non immaginiamo neanche, – sentenziò Ettore senza staccare gli occhi dall’immobilità statuaria dell’insetto. Ne era affascinato. Ogni piega della sua armatura sembrava disegnata ad arte. La forma affusolata del corpo era compatta e inattaccabile. Una macchina perfetta, fatta per resistere, per sopravvivere.
– Un essere del genere non respira nemmeno, – si sentì sussurrare.
Giulia, accanto a lui, rimase in silenzio.

Un paio di giorni dopo accadde un fatto increscioso. Ettore non avrebbe mai osato modificare il corso naturale degli eventi, ma il caso la pensò diversamente e volle che fosse proprio lui l’artefice inconsapevole del cambiamento. Dopo quasi due settimane particolarmente rigide per quella stagione – aveva anche nevicato, apparve infine un tiepido ma incoraggiante sole primaverile. A metà mattina, Ettore alzò la testa dal volume che stava leggendo e fece il giro dell’appartamento spalancando tutte le finestre. Alla radio e in televisione si continuava a ripetere che, per via della quarantena, era un’ottima cosa ventilare gli ambienti. Giulia era andata a fare la spesa e lui così fece: aprì gli infissi uno a uno, e mentre una leggera corrente percorreva il corridoio e attraversava le stanze, distese le braccia e inspirò profondamente a occhi chiusi con un vago senso di sollievo, di speranza, o di rivalsa. Andrà tutto bene.
Spense il riscaldamento, avrebbe lasciato aperto per un po’. Andò in cucina e si fece un caffè. Tornato nello studio, chiuse la porta, poi le ante della finestra. Ed ecco che in quel momento udì un rumore, estraneo ma non impossibile da decifrare. Trasalì, la locusta non era più al suo posto. Istintivamente lasciò la maniglia della finestra, le ante oscillarono piano, avanti e indietro. Ettore girò lo sguardo tutt’intorno, sulla scrivania, per terra, sugli scaffali della libreria. Nessuna traccia. La stanza era piena di oggetti, libri, carta e cianfrusaglie, l’ultimo dei samurai poteva essersi nascosto ovunque. Magari se n’era andato da qualche altra parte, fuori, a rinfrancarsi sull’intonaco della facciata del palazzo, scaldato dai raggi del sole. Una specie di scricchiolio gli fece alzare lo sguardo. Eccolo lì, invece, abbarbicato allo spigolo superiore della finestra, a metà, né dentro, né fuori, dava l’idea di starla cavalcando.
Un bel problema, rifletté Ettore: se chiudeva l’anta rischiava di schiacciarlo, o quanto meno di provocargli una serie di amputazioni, oppure di farlo saltare all’interno dell’appartamento, il ché non era previsto. Non aveva voglia di catturarlo: per un attimo immaginò le parti spigolose e pungenti del corpo dell’insetto a contatto con la pelle delle proprie mani. Rabbrividì. Avrebbe anche potuto morderlo. Si rese conto che forse stava esagerando e analizzò il problema da un altro punto di vista. Toccare l’insetto poteva significare ucciderlo. Escogitò quindi un piano alternativo. Avvicinò una mano e spinse lentamente l’anta della finestra verso la battuta, mostrando delicatamente all’ospite indesiderato la criticità della situazione. Sarebbe stato lo stesso samurai a decidere: dentro o fuori. Meglio fuori.
E invece fu dentro. Quando capì che, per quanto corazzato, poteva concludere la propria esistenza sfracellandosi sulla cornice di una finestra, l’insetto ritenne di poter ambire a qualcosa di meglio e pensò bene di spiccare il volo. Il volo, sì. Quelle zampe erano dei veri e propri propulsori, constatò Ettore, che di fronte a una creatura che probabilmente abitava il pianeta insieme ai dinosauri non trovava miglior vocabolario di quello dei film di fantascienza. Schizzò sopra la sua testa come un razzo, una scheggia. Ci fu anche un battito d’ali. Ora però era diventato invisibile. Abbandonata l’inutile ricerca, Ettore girò la maniglia e con fare circospetto riprese posto alla scrivania, non senza aver scrollato i cuscini sulla poltrona.

Lo vide solo dopo qualche ora, per caso, chinandosi a raccogliere una penna caduta per terra vicino al cestino della carta. Era aggrappato a un vecchio album di fotografie appoggiato al fianco alla libreria, alle sue spalle. Si era mimetizzato, la copertina dell’album era rilegata con un tessuto verdastro, molto simile a quello della sua corazza. Era immobile, come sempre. Dalla nuova angolazione con cui lo osservava, Ettore ebbe quasi la sensazione che sorridesse. – E ci credo, – bofonchiò a mezza voce, – te ne stai al calduccio adesso…
Si rimise al lavoro, doveva terminare una traduzione entro sera. Di tanto in tanto, però, si voltava di scatto per sorprendere il suo ospite nel bel mezzo di un passo falso, ma niente, la locusta spaziale rimaneva dov’era, impassibile, con quel suo ghigno gaudente, piacevolmente ibernata.

Dopo cena, Ettore lasciò Giulia muta davanti alla televisione, fra conferenze stampa, pareri e bollettini di guerra. Un triste tam tam cui correvano il rischio di abituarsi, accrescendo il senso d’impotenza che ritmava le loro giornate d’isolamento. Fortunatamente aveva altro da fare, pensò. Una cosa che sua moglie era riuscita a rinfacciargli: – Non pensi ad altro che al tuo lavoro, passi tutto il giorno fra i tuoi libri, nella tua bolla. Sei fortunato, la tua vita va avanti lo stesso, se stai lì almeno non avverti il dolore.
Ultimò la traduzione. Fu più faticoso del previsto, ci volle ancora qualche ora. Il cono della lampada sulla scrivania inquadrava il manoscritto su cui stava lavorando, il vocabolario, la tastiera del computer e, appena oltre la spalla, il suo ospite, che ormai gli teneva compagnia. – Hai scelto bene, – gli sussurrò Ettore, – ancora una volta baciato dalla luce.

Erano quasi le due quando sentì un fruscio, si voltò e non lo vide più. Per un attimo fu colto dal panico, le mani di pietra, rimase immobile, in ascolto. Ci fu un altro frullare d’ali, un baccano inaudito nel silenzio della notte. Ettore mosse lo sguardo nel buio della stanza, inseguendolo. Un altro volo, ora distingueva anche il rumore sordo dell’atterraggio, poteva immaginare la fusoliera rigida dell’ortottero sbattere sulle superfici lignee dello studio. Tutto a un tratto gli era venuta la fregola, pensò. Un sibilo e un’ombra volante gli passò davanti agli occhi. – Eccolo! – gli scappò detto. Era vicinissimo. Un altro salto e stavolta l’atterraggio fu sulla scrivania. Ettore scattò sulla poltrona alzando le mani. Poi si controllò e tese le orecchie. Un lieve cri cri risuonava fra i porta penne e le carte davanti a lui. Piegò lo stelo della lampada, aguzzò la vista. Non vide niente. Cri cri… Cri cri cri… Finalmente lo trovò, proprio sotto il suo naso, dritto con la testa all’insù, aggrappato a una matita, schiena contro schiena con l’elefante indiano. Ettore lo inquadrò nella luce e sorrise. – Ti sei calmato? – chiese.
Lo osservò attentamente: a turno muoveva le zampette e le antenne. Queste ultime facevano ampi movimenti circolari, come se misurassero la spazio circostante con tanti piccoli coni. No, non si era ancora placato. Dopo una piccola pausa riflessiva sullo stelo di una 2H, salutò l’elefantino e migrò su un pennarello. Non contento, discese e diede un’occhiata alla corrispondenza.
Ettore era stupefatto. In piena notte il suo ospite interstellare si era rivitalizzato, addirittura ringalluzzito, e aveva cominciato ad esplorare il nuovo pianeta in cerca di… Cosa?
L’insetto cominciò a perlustrare la scrivania in lungo in largo. Costeggiò il vocabolario, attraversò il manoscritto, circumnavigò il computer portatile. La presenza del padrone di casa non sembrava intimorirlo affatto, tutt’altro. Ettore, basito, lo guardò girare fra le proprie cose come se niente fosse. – Accomodati pure! – esclamò.
Il computer parve piacergli parecchio. Per via della ventola dell’aria calda, suppose Ettore. Fece una pausa per un phon, poi si diede di nuovo alla lettura. Nel frattempo Ettore provò a scrivere qualche frase, ma il pioniere, forse richiamato dal ticchettio della tastiera, tornò sui suoi passi. Ormai era pochi centimetri di distanza. Ettore batteva sui tasti carattere, lui passeggiava su quelli funzione. Le loro dita, se così si può dire, si sfioravano. Poi, d’improvviso, un nuovo balzo, più corto, e il samurai fu sulla sua spalla.
Fu il contatto. Ettore lasciò che il samurai s’inerpicasse liberamente in lungo e in largo sul suo pullover, ma quando un’antenna o forse una zampetta gli stuzzicarono il collo, non resistette e con uno strattone se lo scrollò di dosso.
L’ospite cadde sulla scrivania, ma per nulla offeso o tramortito, roteando le antenne riprese a girovagare, finché non chiese apertamente di poter salire sul dorso di una mano. Ettore, che si sentiva un po’ in colpa per la reazione di poco prima, acconsentì. Lasciò che lo percorresse fino alle nocche e si dirigesse verso l’incavo fra indice e pollice. Da lì, con un’agile giravolta, l’esploratore si diresse verso la falange del primo dito, cui si aggrappò ben bene con le quattro zampine.
Fece una pausa. – Ma pensa un po’, – sussurrò Ettore. – Hai trovato il tuo posto? -. L’insetto non muoveva che le antenne e la testa. Sembrava stesse annusando qualcosa. Ettore girò il palmo della mano scrutandolo da vicino. Il muso dell’animale ora sfiorava il polpastrello del pollice con fare curioso. Ed ecco che il samurai aprì la parte anteriore del casco e qualcosa di molto simile a una piccola chela ne sfiorò la pelle. Ettore sorrise sorpreso: quella micro-ganascia gli faceva il solletico. Immaginò che stesse prelevando campioni di epidermide da portare in laboratorio… La cosa proseguì ancora qualche istante finché il samurai non affondò il colpo.
– Ahi! – gridò Ettore scuotendo la mano spaventato.
L’ospite cadde in piedi, come sempre, fra due quartine in cirillico.
Ettore si alzò di scatto, agitato. Aveva sottovalutato la forza di quelle fauci: erano in grado di ferire. Per un attimo gli balenò l’immagine del proprio pollice scarnificato.

Era giunto il momento di agire, quella convivenza si era rivelata un fallimento, non poteva più continuare. Ettore, per giunta, doveva finire il proprio lavoro.
Raccolse i fogli dalla scrivania e con essi il suo ospite, andò alla finestra, l’aprì, l’aria gelida della notte invase la stanza. Senza indugiare oltre, scaraventò l’insetto nel buio.
Per un momento rimase in ascolto senza udire nulla. Poi per il freddo e la paura che potesse rientrare, richiuse la finestra. Provò pena, sapendolo là fuori al freddo. Ma poi alzò le spalle e rimise in ordine i fogli del manoscritto. Lui certo sarebbe sopravvissuto.

 

[P.B., 21/4/2020]

 

Dedicato a Antonio Bì, forse più noto come il barman del club.

Herman e la metafisica

[o delle imprese di Maciste nella valle dei farmacisti]

 

Non voglio fare una recensione o roba del genere, non ne sarei mai in grado. Voglio solo prendere qualche appunto e condividerlo con voi. Avete presente quei momenti in cui state leggendo e d’un tratto sorridete, rileggete più volte, assaporando, poi alzate gli occhi in cerca di qualcuno cui citare ad alta voce? Sono momenti preziosi nella lettura di un libro. Ecco, quello che sto leggendo – sono circa a metà – me ne sta regalando parecchi. Ed eccomi qui.

 

Isaac Bashevis Singer

NEMICI
Una storia d’amore

[Adelphi]

Nemici, una storia d'amore

 

Il protagonista della vicenda, Herman, un ebreo scampato alla Shoah e migrato a New York, conduce un’esistenza che, banalizzando brutalmente, definirei “incasinata”. Non credo di fargli un torto enorme usando questo aggettivo. Non è un tipo che si prende troppo sul serio. Meglio, è un fatalista. L’intelligenza non gli manca, tutt’altro, è che non mostra di volerla usare per opporsi o mutare il corso degli eventi. Né gli manca l’ironia nell’interpretarli, o un’invidiabile capacità nel darne un’interpretazione filosofica o metafisica. Religiosa no, quello no. Sia chiaro: Herman è figlio della sua gente, della sua cultura, della sua religione. E’ un ebreo, ma non osservante. Non è un miscredente. E’ un tiepido, uno di quelli che nel giorno del giudizio universale Dio vomiterà dalla propria bocca. Sa, conosce, non rinnega, ma nemmeno promuove. Non interpreta, non vive. La sua visione del mondo non passa attraverso la Bibbia, non di primo acchito quanto meno. Il Libro Sacro è dispensatore di saggezza e verità, ma la definizione di ogni cosa per Herman arriva quasi sempre da un’altra fonte, spesso, e in maniera acuta e puntuale, per bocca di un filosofo occidentale. Non a caso, prima della guerra, il giovane Herman si era iscritto, appunto, a filosofia.

Ed era qui che volevo arrivare. A quelle definizioni, quelle visioni. Così efficaci, incisive. Quelle che leggendo ti vien voglia di sottolineare.
Riporto solo qualche esempio, qualche chicca.

 

Herman e i figli. Ogni donna Herman incontri nella sua vita gli chiede un figlio. Lui, però, i bambini non li ama. Non ne vuole. Tanto da abbandonarli. Siamo ancora in Polonia, prima della guerra.

Tre anni dopo il matrimonio, Tamara diede alla luce una bambina – ovvero secondo Otto Weininger (che all’epoca secondo Herman era il filosofo più coerente) una creatura “priva di senso logico, priva di memoria, amorale, un mero recipiente di sesso”.

Masha. Il mio personaggio preferito. Sfaccettato, energico, affascinante, eccentrico, vulcanico, afflitto, nevrotico. Il suo ritratto dura interi capitoli, riempie spumeggianti dialoghi, si ramifica, avvolge tutto, si spinge in perverse immaginazioni sessuali, addirittura in grado di stuzzicare anche la pelle squamata del nostro Herman. Non basta un solo pensatore per inquadrarla, ma tant’è.

Herman sedeva in silenzio, preoccupato per la complessità della sua situazione. Si era trattenuto nel Bronx per tre giorni. Aveva telefonato a Jadwiga e le aveva detto di essersi dovuto recare a Baltimora dopo Filadelfia, e le aveva promesso che sarebbe rientrato quella sera. Ma non era sicuro che Masha l’avrebbe lasciato andare; avevano parlato di andare al cinema insieme. Lei faceva ricorso a qualunque espediente pur di tenerselo accanto, e si sforzava di rendergli le cose difficili. Il suo odio nei confronti di Jadwiga rasentava la follia. Se Herman aveva una macchia sui vestiti o alla sua giacca mancava un bottone, Masha accusava Jadwiga di trascurarlo, di vivere con lui solo per farsi mantenere. Agli occhi di Herman Masha era il miglior punto a favore della tesi di Schopenhaeur secondo cui l’intelligenza non è altro che una serva della volontà cieca.

Di seguito, invece, una saggia descrizione del “nostro” modus vivendi (siamo a NY negli anni ’60…).

Grazie a Dio, era troppo preso dai propri affari per ricordarsene. Il rabbino prendeva appunti, ma poi non li consultava mai. Nessuno degli antichi filosofi e pensatori avrebbe potuto prevedere un’epoca come quella: l’epoca della frenesia. Lavora in fretta, mangia in fretta, parla in fretta, addirittura muori in fretta. Forse la fretta era uno degli attributi divini. A giudicare dalla velocità del flusso elettromagnetico e dalla rapidità del moto delle galassie che si allontanano dal centro dell’universo,  si potrebbe concludere che Dio è impaziente.

Qui niente filosofia, almeno non in forma diretta, o di citazione. Ma una visione che nell’arte di caratterizzare il personaggio, in questo caso Masha, definirei geniale oltre che divertente.

Herman si riaddormentò. Anche i suoi sogni andavano di fretta, si incalzavano, spazzando via il principio d’identità, negavano le categorie della ragione. Sognò che mentre faceva l’amore con Masha la parte superiore del corpo di lei si era staccata da quella inferiore e di fronte a uno specchio gli rimproverava di fare sesso con una mezza donna. Aprì gli occhi.

Ecco come appare il nostro apatico e abitudinario Herman nel momento in cui viene a conoscenza di un’imprevedibile, ingombrante, imbarazzante novità…

“Vengo subito” ripeté Herman. Cercò di riagganciare, ma la cornetta gli cadde dalle mani e rimase a spenzolare all’estremità del filo. Gli parve di sentire ancora la voce di Abraham Nissen. Aprì la porta della cabina. Fissò il bianco che aveva di fronte, una donna seduta su uno sgabello sorseggiava una bibita con la cannuccia mentre un uomo le serviva dei biscotti. La donna stava civettando con il tizio e tutte le rughe della faccia imbellettata sorridevano imploranti. Herman rimise a posto la cornetta, uscì dalla cabina, e si avviò verso la porta.
Masha lo accusava spesso di essere un “robot” e in quel momento Herman era d’accordo con lei. I suoi sentimenti erano arginati da una diga e la sua mente calcolava con freddezza. L’appuntamento con Masha era alle quattro. A Jadwiga aveva promesso che sarebbe stato di ritorno a casa entro sera. Doveva ancora finire il manoscritto del rabbino. Era fermo sulla porta del drugstore, e i clienti che entravano e uscivano gli finivano addosso. Gli tornò in mente una definizione di meraviglia data da Spinoza: “Quando la mente resta immobile perché l’immaginazione di una singola cosa non ha alcuna connessione con le altre…”

E rieccolo dopo qualche ora, al termine di quella che si definirebbe “una lunga giornata”.

Herman non riusciva a ricordare una giornata estiva lunga come questa. Gli tornò in mente David Hume, secondo il quale non esisteva una prova logica del fatto che il giorno dopo il sole sarebbe sorto. In questo caso mancava la prova logica che il sole sarebbe tramontato.

 

Isaac Bashevis Singer

Isaac Bashevis Singer – web

 

Ecco. Credo che Singer sia stato un vero maestro nel caratterizzare i propri personaggi. Herman, Masha, Tamara… Il suo Nemici, una storia da’more è un libro estremamente ricco in tal senso, un vero forziere. I suoi personaggi sono tridimensionali, dotati di verve, invadono la scena, i loro dialoghi ti incuriosiscono, ti stupiscono, ti prendono. Non a livello di pancia, ma di testa. Una qualche forma di fredda, illuminata razionalità, mista a fatalismo e nichilismo da “sopravvissuti”, pervade i protagonisti del romanzo, dando spazio a stoccate di pungente, aspra ironia.

Leggo Nemici di Singer dopo aver letto Il mio nome è Asher Lev, di Chaim Potok, romanzo che ho amato profondamente. Voglio credere che entrambi siano stati scritti a New York, magari a Brooklyn, nello stesso periodo (uscirono entrambi nel 1972). Impossibile non cadere nella trappola del confronto di come venga descritta e raccontata la vita degli ebrei scampati alla Shoah e fuggiti negli Stati Uniti durante o dopo la seconda guerra mondiale; di come direttamente o indirettamente vengano descritti l’ebraismo, il chassidismo; di come con occhi e sentimenti diversi possano essere trascritte, fatte conoscere e incontrare determinati vissuti, determinate esperienze, apparentemente simili, ma profondamente diverse…
Ma di questo magari parleremo un’altra volta.

Ci vediamo stasera

Che cosa ne dicono…

 

E. Schiele - Ritratto di Wally

E. Schiele – Ritratto di Wally

 

“Il viso affilato e asciutto portava i segni dell’adolescenza. Le labbra erano un’umida ferita sulla scorza di un frutto ancora acerbo. Ma gli occhi, due grandissimi occhi blu, avevano il potere di riscattare l’insieme di quel volto privo d’armonia.
La ragazza bevve un caffè e sostò un momento senza parlare con nessuno. Sembrava inquieta. S’avviò all’uscita e sulla porta si girò di scatto come rispondendo a un richiamo. Oswald abbassò lo sguardo sul giornale aperto davanti a sé.”

[Da Déjeuner sur l’herbe, Ci vediamo stasera, Racconti, Terra d’ulivi edizioni]

 

 

CI VEDIAMO STASERA

A che ora? Tra l’8 e 1/2 e Midnight.

La lettura di un libro rappresenta un viaggio di cui è auspicabile il lettore si senta parte. Gli episodi che Paolo Beretta racconta sono fotografie che non hanno un inizio e non hanno una fine. Sono frammenti che portano il lettore a chiedersi come si sia arrivati fin lì e come andrà a finire. Spetta a lui collocarli in una trama più ampia. Generano tensione, suscitano indeterminatezza. Se chiudi gli occhi riesci a vederli.
Il lettore allora non si sente semplicemente coinvolto, ma catturato. La storia diventa sua, l’inizio e la fine deve scriverli lui.
Paolo Beretta sa creare atmosfera e il sesso diventa un soggetto di pari dignità rispetto al resto. Non è tabù, è vita.
E allora penso al bianco e nero di Fellini e al suo “8 e 1/2”. Penso al dreampop degli M83 e alla loro “Midnight city”.

[D.Z., 13/4/2020]

 

Ringrazio Daniel Zanchi per l’attenzione e il suo gradito commento.

la mia schiena

la mia schiena

la mia schiena
è piegata
collassata
assuefatta
ma non ancora indurita.
se ci provo – lo so
poco poco la muovo.
comincio piano
dal basso
la curva più pigra
appesantita
squassata
insieme al bacino.
spingo in fuori l’addome
che è il centro:
curiosità, coraggio.
respiro
m’inarco
appena sotto il diaframma
giace un nuovo destino.
se smetto di subire
e raddrizzo
in mezzo al torace
quel virgulto proteso
come radice a una rupe
ecco, quasi
scaturisce una voce.
la mia schiena
è schiacciata
ritorta
parola trascritta
da mano malferma.
è un grido mancato
un verbo incompiuto
o forse ceduto.
è metafora
è vita
che ancora stride
e muta
nella più piccola piega.

[P.B., 11/4/2020]

foto – Cristina Rizzi Guelfi

Anomalia

btr

 

L’aria è pungente

all’ombra del tetto.

Un’alba di piccole stelle

mi accompagna al confine

di un universo giardino.

Anche il rosmarino s’è ornato

di un velo bianco celeste.

In questo tempo spietato

Madre Natura non indugia

la sua mano, deliberata

aggiunge e rimuove

come meglio crede.

D’un tratto, il silenzio.

La frenesia sui rami

cede il passo a un fruscio.

Poi un grido, inumano.

Raddrizzo la schiena.

Un carro funebre scivola piano

sotto il mio sguardo sospeso.

Poi l’urlo, di nuovo

da una finestra spalancata.

Voce di donna, straziante

che irrompe, atterrisce.

Una sola parola

la stessa

lacerata.

La prima.

Di fame, sete

rabbia

disperazione.

D’amore.

L’ultima.

In un feroce addio.

 

[P.B., 4/4/2020]

 

L’altra mattina, poco lontano da qui, il conducente di un carro funebre, per gentilezza, ha fatto una deviazione sul tragitto verso il cimitero, per passare sotto casa della figlia di una donna morta di Covid-19, affinché la vedesse, anche così, a distanza, un’ultima volta.