Il bianco e il nero

In attesa di qualcosa di fresco (che arriverà, con calma, ma arriverà), ripubblico un mio breve racconto di tanto tempo fa, nel quale sono inciampato nel mio periodico riordinare file e cartelle (per poi puntualmente non ritrovare più nulla).

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– Non toccherebbe sempre a me il nero, – dico mettendo mano svogliatamente ai miei pezzi.
– Sì, invece, risponde lei, carezzando un suo alfiere bianco, come fosse un soldato dell’esercito del bene. Mentre il nero, penso, dovrebbe essere quello del male; che in francese, con la e muta, significa maschio. Ma la mia anima è bianca. Bianca, sì, la mia anima è vergine. Credo di non aver mai amato, di non esserci mai riuscito. In fondo, penso che questo lei l’abbia capito benissimo. Come dovrebbe aver capito che detesto questo teatrino della partita a scacchi. Non serve a niente, le cose non cambiano. Vorrebbe costringermi, torturarmi forse, ma non si accorge che così fa male solo a se stessa. Su quei riquadri bianchi e neri sono invulnerabile; come nella vita, a quanto pare.
– Odio questo gioco, – dico.
– Se vinci sempre tu! – esclama lei fingendo di non capire. Sembra una bambina. Ora incrocia le braccia in atteggiamento d’attesa, fissando le mie mani; dice che le piacciono tanto.
Il nero annulla ogni colore assorbendolo in sé, rifletto. Lei si prende sempre i bianchi, ma credo che in fondo invidi il mio colore. Solo che ne ha un timore riverenziale, non si fida.
Finisco di disporre i miei pezzi, poi levo i cuscini da sotto il sedere, voglio sentire il duro del pavimento. Freddo, meglio così.
– Allora ti piace perdere, – sussurro senza alzare lo sguardo.
– Sono io che ti lascio vincere, cosa credi? – ridacchia, concentrandosi sulla sua apertura, come se non l’avesse già pronta da un pezzo.
Ogni volta rispondo a una sua prima mossa, peraltro quasi sempre la stessa. Non dovrebbe essere così. E’ proprio testarda. E ogni volta s’illude di prendere in mano la situazione.
– Sono altre le libertà che dovresti concedere, prima di tutto a te stessa -. Stavolta la guardo, ma lei non alza gli occhi dalla scacchiera, come fosse ipnotizzata dal quadrato bicromatico. Ma che t’affanni a fare?, penso, l’amore non ha forma, né geometria. Non servono strategie, mosse e contromosse, serve solo l’istinto, quella cosa nella pancia che ti dice se stai facendo la cosa giusta.
Una cosa, però, pare averla capita: se lasciasse a me la prima mossa, la partita potrebbe anche non avere inizio. Io credo che pensi che se stesse a me aprire, la nostra storia potrebbe finire, ora, in questo preciso istante. Quello che non sa, invece, è che potrebbe essere tutto diverso, che farebbe bene a rischiare.

Giochiamo. Il bianco apre le danze e combatte con onore. S’arrocca, si difende, s’illude e infine perde, annullato, risucchiato dal nero, come sempre. I nostri colori si oppongono, si escludono, ma non si mischiano mai.
E’ così anche quando facciamo l’amore. E’ lei a chiedermi di farlo. Quando esco dal letto, però, non parla più. Fissa il soffitto e non vede nient’altro, come se non esistesse che lo spazio bianco in cui pare essersi rifugiata. Chiude gli occhi e ho la sensazione che stia per mettersi a piangere. – Vai via, lasciami sola, – dice coprendosi la faccia con un cuscino.

Quel che rimane è il silenzio assordante dei miei pensieri che rimbalzano sulle pareti della stanza. Mi sento soffocare, vorrei dire parole che le farebbero male, ma sarebbe un dolore utile a entrambi. Invece sto zitto, non me la sento e mi allontano, ogni volta un po’ di più.

Se per una volta lasciasse a me il bianco. Se mi permettesse di amarla.

[P.B., 2013]

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Immagine di copertina tratta dal web