Mai stato meglio

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Cose che arrivano da lontano.

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L’asfalto puzza di birra e piscio. Fa caldo, il parcheggio è quasi deserto. Seduto su un blocco di cemento, Dario piega l’incarto stando attento a non ungersi le mani. Aspetta che Cloe, assorta nei propri pensieri, finisca il suo trancio di pizza. Perché mi guardi così? Fa lei. Dario continua a fissarla senza dire niente, poi sorride distogliendo lo sguardo. Fa caldo, dice. Cloe annuisce deglutendo. Guarda il proprio pezzo di capricciosa sentendosi a disagio: Dario ha fatto sparire la sua in pochi bocconi. Sembra aver fretta di andarsene, è di cattivo umore e lei non capisce perché.

E’ una domenica come tante altre. Certo non è stata una grande idea quella di infilarsi in un centro commerciale, ma almeno lì c’era l’aria condizionata e alla fine è stato divertente. Le è sempre piaciuto girare per negozi, la distrae. Fra gli scaffali le vengono un sacco di idee, anche se alla fine non compra niente. Osserva e a casa riproduce ciò che ha visto con quello che trova. Fa un po’ di tutto, dal soprammobile, al centrino, al capo di abbigliamento. Sa disegnare e cucire, sì; niente di complicato, ma se la cava. Ciò che conta, dice sempre, è creare. Adora i lavori manuali, sono gli unici che le danno soddisfazione.

Beve un sorso di sprite e appoggia la lattina accanto a sé, sul marciapiede. Dario è nervoso. Che cos’hai? Gli chiede. Niente, risponde lui alzandosi in piedi e avviandosi verso i bidoni della spazzatura. Getta i rifiuti, indeciso se prendersi un’altra birra, mentre osserva l’insegna sbiadita del fast food. Accanto c’è un panificio che apre solo la sera e rimane aperto fino a mattina. Ci si è fermato qualche volta, rientrando dal turno di notte, le brioche non sono male. Le altre vetrine hanno tutte le saracinesche abbassate, i bar lavorano solo con il multisala dell’isolato accanto. Di giorno quel posto cambia faccia, pensa. Niente luci, niente musica, niente rumore, niente gente che va e viene accalcandosi ai banconi. Alla luce del sole gli edifici non sono altro che degli enormi scatoloni di vetro e cemento, vuoti e abbandonati.

Vorrebbe essere solo, pensa. Lontano da lì e solo. Cloe non può capire cosa si provi, cosa significhi tagliare i ponti con tutto, ribaltare la propria vita, trovarsi un altro posto dove andare e ripartire di nuovo da capo, da zero. Cloe non sa e non deve sapere. Lei non c’entra, ha fatto tutto da solo, su questo non ha alcun dubbio. Chi rompe paga. La vita è la sua, lui ne decide la rotta, lui ne subisce le conseguenze. Ha avuto ciò che voleva, comunque, qualsiasi cosa possa essergli costato.

Una monovolume s’avvicina a velocità un po’ sostenuta, svolta attraversando il parcheggio desolato e si ferma a pochi metri da loro. Scendono mamma, papà e due ragazzini seduti dietro, cui il padre spalanca la portiera sottraendoli alle rispettive console. Andiamo, ordina, mandandoli avanti. Si aggiusta i pantaloni e li segue premendo il radiocomando, confortato dal lampeggio dell’auto. Il passo, fronte alta, mento sollevato, denota la sicurezza compiaciuta di un uomo che si sente arrivato. Non è molto alto ed è un po’ sovrappeso, la polo rigonfia in morbide balze. Raggiunge i suoi, lanciando una rapida occhiata in giro prima di entrare nel locale. Dario e Cloe fan parte dello sfondo dell’anonimo pianeta in cui ha l’aria di essere appena sbarcato, pur con l’intenzione di non trattenersi a lungo.

Liberatasi dei resti del pranzo, Cloe si volta a guardare i nuovi arrivati. Guardali, commenta Dario sogghignando, la famigliola perfetta. Bella macchina, bei vestiti, la sicurezza che ti dà avere un po’ di soldi in tasca. Quanto basta a non vedere più in là del tuo naso. A non vederti da fuori. Due bambocci a immagine e somiglianza del loro papà. La vedi anche tu, la loto imbarazzante normalità? Chiede. Tutto sembra perfetto, ma dietro all’apparenza cosa c’è, eh? Crolleranno da un giorno all’altro senza nemmeno sapere perché… Mi fanno pena. Guardarli fa quasi male…, aggiunge con un filo di voce.

Cloe si volta preoccupata. Dario riprende a parlare fissando l’asfalto assolato: Sono ciechi. Vivono seguendo schemi prefissati, pensando di essere felici, e invece sono degli illusi, vittime indifese dei loro sogni di carta, di loro stessi.

Cloe ha gli occhi umidi. Mi fai paura quando parli così, dice con voce tremante.

Dario la fissa incuriosito dall’alto del suo metro e novanta, poi la sua espressione muta in un sorriso, uno di quelli che sanno rassicurare anche i pazienti più spaventati. Che fai, piangi? Chiede, carezzandole i capelli. Su, su, vieni qui. Si avvicina e la prende sotto braccio. Per loro non c’è futuro, riflette, ma non è colpa di nessuno. Le loro vite si sono incrociate per caso, perché è così che doveva andare. Ma se prova a immaginare la propria vita d’ora in avanti, è da solo che si vede. Cloe non può capire, ma in cuor suo anche lei sa bene che non può durare. E in fondo è ciò che vuole.

La famigliola felice esce dal locale e s’infila rapidamente in auto, confidando nel climatizzatore.

Non farci caso, sussurra Dario. Sto bene. Mai stato meglio.

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[P.B., 12/1/2021]

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Immagine di copertina: Laura Salvi

3 thoughts on “Mai stato meglio

  1. Osservare le vite degli altri è un esercizio; il risultato che si ottiene non è mai uguale per tutti. Ma non c’è un risultato giusto, un conto che torna. Facendo un passo indietro ci si potrebbe, forse, chiedere il motivo di questo esercizio. L’immagine che mostriamo al mondo non siamo noi, l’immagine è la superficie. Una superficie che racconta, per chi ha affinato l’esercizio dell’osservazione e va oltre il colpo d’occhio, abbraccia e divide i pezzi. Compie un’operazione di interpretazione, talvolta del tutto involontaria, oppure tanto naturale quanto derivata dall’abitudine a praticare la stessa cosa con se stessi. .

    L’apparenza inganna. Non sempre. Non definitivamente. Ma inganna. Ha una sua fisiologica missione: mostrare qualcosa per dimostrare qualcosa. E implicitamente il suo contrario: non mostrare per non dimostrare.

    Il racconto è un trionfo dell’apparenza.

    La descrizione della bella famigliola lo dimostra.

    Anche Dario è tutta apparenza e, anche quando scopriamo i suoi pensieri più intimi, riesce a non rivelarli; si cambia velocemente la maschera con una più sorridente e rassicurante; mette in una tasca quella del sarcasmo e nell’altra quella imbronciata e pensierosa. Un vero artista del pirandelliano uno nessuno centomila.

    Forse siamo tutti come gli edifici che si vedono intorno: scatoloni vuoti di vetro e cemento, abbandonati. Ci rianimiamo solo rapportati gli altri, che vedono il nostro vestito e in esso ci trasferiscono tutto il nostro essere, presente passato e futuro.

    L’io più profondo non solo è inconfessabile ma è impossibile da comunicare se non attraverso un mezzo di trasferimento. L’immagine, l’apparenza è quello più semplice e immediato (un vestito, un’auto, nel caso di Cloe la capacità di ricostruire qualcosa che non si può comperare ma che si desidera avere per dimostrare)
    La scrittura, l’arte in generale, sono i mezzi più raffinati e complessi, capaci di racchiudere una gamma infinita di sfumature. Ma non basta. Anche l’arte ha bisogno di un fruitore e qui c’è un altro passaggio ancora. La comprensione di un’altra anima ha quasi le caratteristiche della sfida.

    Un io vince e perde sempre.

    Un altro io vince e perde sempre

    In un gioco infinito che si chiama vita
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    L’amore è la vittoria apparente.

    La fine di un amore è la sconfitta apparente.

    Ma se non ci fossero non saresti qui a scrivere

    • Che meraviglioso commento, “poetessa”!!
      Davvero, hai detto tutto, e oltre. Me lo rileggo un po’ di volte. Inutile dire che sono assolutamente in linea con il tuo pensiero, la tua analisi.
      Grazie delle profonda lettura che dai alle mie (piccole) cose. :-))
      P.

    • E rimarco, fra tutto, l’importanza per me – in senso di “prevalenza” nei miei scritti – del tema della relatività (come dici tu, pirandelliana) e della capacità del soggetto di adattarsi alle diverse situazioni senza mostrare (o nemmeno riconoscere) la propria più intima identità (zelig).

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